(Non) affrontare la morte

Vi ho avvisato fin dal titolo. In questo post tratterò quello che probabilmente è l’argomento più scabroso per noi, che apparteniamo a una cultura – ammettiamolo – vitalista e materialista, che considera “questa” vita come l'”unica” vita. Secondo altre culture non è così. Alcune sostengono che “dopo” ci sia una vita eterna. Altre che ci siano infinite vite a disposizione, sia in un corpo fisico che fuori.

Personalmente, non vi so dire come funziona. Nessuno può, anche perché pare che finché siamo nella “tuta-corpo” abbiamo presente solamente la vita attuale, e delle eventuali altre non ci ricordiamo nulla. Per cui all’atto pratico viviamo una vita per volta. Ciò non toglie che – anche stando così le cose – possiamo fare qualche considerazione basata esclusivamente sul mondo cosiddetto materiale.

Per esempio: come diceva Epicuro, non bisogna aver paura della morte, perché quando ci siamo noi, non c’è lei, e quando c’è lei, non ci siamo noi. E’ così semplice, davvero. C’è anche un’altra riflessione in merito che mi ronza nella testa da un po’ di annetti. Come possiamo sapere per certo che stiamo per morire? Anche qui, la risposta è abbastanza immediata: non possiamo saperlo.

Anche se in un dato momento stiamo malissimo, e magari il medico ci ha consigliato di verificare che il nostro testamento sia a posto, non possiamo essere certi di essere sul punto di morire. Anche perchè, molto banalmente, finché non siamo morti, siamo vivi, e dunque tutto può ancora accadere.

Distacco. Destrutturazione. Ricombinazione.

Di tanto in tanto conviene riprendere in esame la nostra situazione attuale, specialmente se ci sentiamo intrappolati in essa, e non ci vediamo più quel granché di evolutivo. Secondo la mia esperienza questo procedimento può essere svolto in tre fasi, che ho pensato di chiamare Distacco, Destrutturazione e Ricombinazione.

Il Distacco avviene quando non ci identifichiamo più con la situazione. Di solito infatti tendiamo a vivere con il pilota automatico, seguendo una serie di abitudini. Intendiamoci, le abitudini possono essere uno strumento prezioso, quando di aiutano a raggiungere i nostri obiettivi. Diversamente, possono diventare un vero e proprio incubo, quando si annodano e ci incatenano a una situazione che per noi non è evolutiva o addirittura si rivela deleteria. Occorre allora porsi quelle che da tempo ho preso a chiamare le due domande fondamentali, ovvero: 1. Che cosa sto facendo? 2. Perché lo sto facendo?

Cominciamo così a prendere le distanze dalla situazione. In un certo qual modo è come se ci risvegliassimo dal sonno. Alcuni autori, tra cui Salvatore Brizzi, lo chiamano “creare il Testimone”, e secondo me è una definizione davvero azzeccata, perché da quel momento diventiamo testimoni di quello che ci sta accadendo, e possiamo darne una valutazione più oggettiva. Continuiamo quindi a vivere come sempre, ma cominciando ad osservare con una punta di distacco quello che succede.

Una nota a margine per questa fase: non sempre dovremo cambiare qualcosa. Si tratta di una revisione, non necessariamente di una rivoluzione. Molti non affrontano questa fase perché pensano che li porterà, un bel giorno, a uscire a comprare le sigarette per poi trasferirsi a Tahiti.

A parte il fatto che un gesto del genere, se non siamo cambiati noi, ci porterà a replicare a Tahiti la stessa situazione da cui siamo fuggiti, può benissimo essere che basti cambiare aspetti anche piccolissimi per rimettere tutto in equilibrio. A volte, basta crearsi un hobby che ci dà soddisfazione, oppure mettere il nostro lavoro in una prospettiva diversa, più interessante ed amorevole.

Passiamo alla seconda fase, quella della Destrutturazione. Si tratta, in linea di principio, di comprendere che ogni problema, anche quello più complesso, quello che minaccia continuamente di sopraffarci. può essere suddiviso in problemi più piccoli, sempre più piccoli, fino a trovare un problema che non è più un problema, perché possiamo gestirlo immediatamente o quasi.

Una volta individuato questo piccolo tassello che possiamo gestire agevolmente – e dopo averlo gestito – ecco che ci sentiamo molto più padroni della situazione. Sono soddisfazioni impagabili che rafforzano di parecchio la nostra autostima.

Siamo così arrivati all’ultima delle tre fasi, quella della Ricombinazione. Una volta che abbiamo suddiviso il problema in elementi gestibili, possiamo prendere in considerazione altri elementi che finora erano rimasti fuori. Allargando la nostra mente e la nostra visuale, ricercando nuovi tasselli, è infatti possibile mettere insieme nuove opinioni sul problema che stiamo affrontando. “Là fuori”, infatti, c’è spesso molto di più di ciò che siamo abituati a tener presente.

Dalla Ricombinazione parte un nuovo ciclo, che può rappresentare un volano non indifferente per la nostra crescita, sia dal punto di vista materiale che da quello spirituale. Che poi, a ben vedere, vanno frequentemente di pari passo.

Sei centro o periferia?

Si sente spesso parlare di “periferie“. Ovvero. luoghi disagiati dove vive, guarda un po’, gente altrettanto disagiata, disadattata. Ma alla fine, sono i luoghi o le persone ad essere “periferia”? A mio parere, la seconda. Spesso siamo noi per primi, con il nostro atteggiamento, a porci alla periferia di qualcosa.

Qualcuno potrà obiettare: ma non è vero, in periferia ci si nasce, è un fatto concreto. Ci sono “situazioni disagiate”, contorte, ardue da districare. Quando nasci in “certi posti” è “difficile tirarsene fuori”. Contro l’ambiente, “nulla si può”. Mi pare evidente che quanto precede non sia altro che una serie di convinzioni, di opinioni, che in quanto tali sono, appunto, opinabili.

Prima di tutto, credo che bisognerebbe capire rispetto cosa vuol dire sentirsi “periferia”. E soprattutto rispetto a che cosa. Così a spanne, sentirsi “periferia” a mio parere significa sentirsi esclusi. La domanda successiva è: esclusi da che cosa? Qual è, in definitiva, il “centro” rispetto al quale ci si sente “periferia”?

Normalmente, almeno dalle nostre parti, in Europa, mi risulta che ci si sente “periferia” rispetto al “centro” dell’abbondanza di beni materiali. Si osserva che cosa possiedono coloro che costituiscono il “centro”, e se non possediamo altrettanto ci sentiamo “periferia”.

Una volta presa coscienza del fatto che siamo “periferia”, in genere, succede che cominciamo a sviluppare un risentimento nei confronti di coloro che hanno quello che noi vorremmo avere, ma che riteniamo di non poter avere. Attenzione, ho scritto “riteniamo di non poter avere”, perché – ripetiamolo che fa bene – si tratta di un’opinione, di una convinzione.

Succede però spesso che questa convinzione sia così pervasiva che ci identifichiamo con essa e la prendiamo per verità oggettiva. In alcuni casi il risentimento contro “chi ha” si trasforma in vero e proprio odio, e ci si cala nel ruolo della Vittima. Tutte le energie vengono convogliate nell’odio verso quello che diventa, a sua insaputa, il nostro Carnefice.

Finché l’odio rimane dentro di noi, si rivela solamente un grandissimo spreco di tempo e di energie. Il che già è un danno notevole. Il vero problema è che spesso il pensiero si trasforma in azione. Andiamo a scontrarci fisicamente con quello che ci siamo scelti come idolo polemico. E questo può avere delle conseguenze devastanti. Si commettono magari dei reati, anche gravi. Si diventa a tutti gli effetti dei criminali.

L’alternativa, ovviamente – chi mi conosce l’ha già capito – è diventare, essere “centro” anziché “periferia”. Praticare l’invidia creativa. Ovvero, anziché limitarsi ad invidiare chi ha quello che vorremmo avere, cercare di comprendere come l’ha ottenuto, quali azioni ha compiuto, che tipo di qualità e di competenze ha sviluppato e messo in pratica. Insomma, capire qual è stato il suo percorso e… copiarlo.

Molto meglio che starsene in un angolo a farsi venire un fegato così, o peggio ancora, che so io, mettersi a spaccare qualche vetrina per sentire che abbiamo inciso (forse) sulla realtà.

Meditazione dell’acqua

Sto sperimentando una visualizzazione, molto semplice, ma che per quanto mi riguarda sta avendo risultati molto interessanti. Quando nella mia mente si affacciano pensieri limitanti, immagino il mare, un lago, un fiume, un torrente. Insomma, mi riempio la testa di acqua.

L’acqua è un elemento che mi ha sempre affascinato, nonostante io non abbia mai imparato a nuotare pur essendo nato in una città di mare :-). Laghi, fiumi, mari e torrenti, con la risacca, lo scroscio o anche il semplice sciacquio, ha sempre avuto su di me l’effetto di placare il… moto ondoso dei miei pensieri.

Così, ultimamente, utilizzo questa visualizzazione per discernere i pensieri importanti e costruttivi da quelli che a volte si affacciano un po’ a casaccio. Pensare all’acqua, elemento che si muove in continuazione, ci rende consapevoli del fatto che, come diceva il filosofo, “tutto scorre”.

A parte questo, è noto che non si può pensare a più di una cosa alla volta. Di conseguenza, il pensare all’acqua interrompe il pensiero negativo, dando una boccata d’ossigeno alla nostra mente. A forza di boccate d’ossigeno, si trova la via per pensare in modo certamente più costruttivo. Da pensieri più costruttivi derivano azioni più costruttive, e dalle azioni più costruttive, una vita di qualità più alta.

Piccolezze…

Mi è tornato in mente questo smilzo e agile volumetto di Richard Carlson, Non perderti in un bicchiere d’acqua. Il titolo inglese originale, Don’t Sweat the small stuff rende molto meglio, a mio parere, il contenuto del libro. Fondamentalmente, dice Carlson, per vivere bene bastano due regolette. Regola numero uno: non prendertela per le piccole cose. Regola numero due: non ci sono che piccole cose.

Sono due concetti che personalmente trovo potentissimi. E’ chiaro che nella vita ci possono essere problemi, anche molto complessi. Ma, appunto, poiché sono complessi possono anche essere suddivisi in fasi più piccole, dunque più gestibili, e in ultima analisi, possono essere effettivamente ridotti a… piccole cose. A piccolezze.

Sto sperimentando il mantra “piccolezze, piccolezze, piccolezze” con alcuni dei fastidi minori che tutti quanti subiamo quotidianamente, e devo dire che funziona bene assai. Avete presente, quando per dire andate in bagno e scoprite che avete finito il dentifricio, oppure quando uscite e rimanete impanati nel traffico, o ancora quando il capoufficio ha la luna di sghimbescio (ehm… sempre che stiate lavorando in presenza, o che stiate lavorando in generale…). Insomma, questo genere di cose.

Ebbene, un po’ alla volta, praticando questo mantra ci si rende conto di molte delle cose che ci pre-occupano sono “scomponibili” in elementi più piccoli, più gestibili. Dunque, la maggior parte delle volte semplicemente non ha senso prendersela, perché in definitiva possiamo, se vogliamo, avere il controllo della situazione. E quando non possiamo averla, vale il motto del Budda: “se c’è rimedio, perché ti preoccupi? Se non c’è rimedio, perché ti preoccupi?”