Il “Cantar de Mio Cid” è attualmente una delle poche prove concrete, se non l’unica, dell’esistenza di un’epica sviluppata in lingua spagnola, essendo poemi come quello degli “Infantes de Lara” nient’altro che una ricostruzione, sia pure su basi attendibili. La data della sua affettiva composizione rimane a tutt’oggi incerta: Menendez Pidal, conformemente alla sua tesi di contemporaneità dei poemi agli avvenimenti narrati, lo data attorno al 1100, mentre studi successivi lo dicono non anteriore al 1200 almeno. Rispetto ai poemi epici di altri paesi, come ad esempio l’inglese “Beowulf”, la tedesca saga dei Nibelunghi, o anche soltanto alla “Chanson de Roland”, il Cantar ha come caratteristica una storicità più marcata, come se l’autore (o gli autori) si fossero dati pena di svolgere delle indagini, o, come dice Menendez Pidal, ne fossero stati testimoni oculari. In ogni caso, il Cantar non racconta solo una leggenda.
L’unica copia del Cantar in nostro possesso è una trascrizione ad opera, stando all’explicit, di un certo Per Abbat, che gli studiosi hanno datato al 1307 rifacendosi allo stesso explicit. Il manoscritto fu scoperto nel secolo XVI nell’archivio di Bivar. Studi recenti (Michael) hanno fatto di questo manoscritto andato perduto, sulla base di indagini paleografiche sul testo. Comunque, con questo manoscritto si pone un “terminus ante quem” per la composizione del poema.
Anche quest’unica copia pone comunque dei problemi, perchè il suo stato di conservazione non è dei migliori. Il manoscritto ha cambiato spesso proprietario nel corso della sua storia, e quasi mai è stato tenuto bene. Di conseguenza, macchie di umidità ed altre di vario tipo e natura nascondono alcuni punti del testo. Ad esse si aggiungono i danni provocati dall’uso indiscriminato di sostanze corrosive atte a far riaffiorare lo scritto (in dosi troppo forti e troppo ripetutamente). Solo l’invenzione delle lampade infrarosse ed ultraviolette e la scoperta dei raggi X hanno potuto risolvere questi problemi, ed oggi costituiscono il principale strumento di indagine filologica.
Ciò in cui questi mezzi non possono essere d’aiuto è invece la mancanza, anch’essa probabilmente dovuta ad incuria, di alcune pagine, precisamente la prima del primo quaderno, ed altre due pagine nel settimo e nell’ottavo rispettivamente. Michael sostiene che, sebbene ogni pagina contenga 24 o 25 versi, non è sicuro che questa prima pagina del primo quaderno contenesse una parte di testo; ad ogni modo tutti coloro che si sono occupati del Cantar hanno cercato di ricostruire i versi mancanti: alcuni li ricostruì Bello, il primo ad occuparsi seriamente di quest’opera. Fu però Ramon Menendez Pidal che portò il numero dei versi a 12, e un tredicesimo fu dedotto da Samuel G. Armestead. Queste parti mancanti furono ricostruite attraverso le prosificazioni dei cantares, usati come materiale storico dai compilatori di cronache. Questo metodo rientra nella tesi chiamata menendezpidaliana o tradizionalista, che toglie il Cantar de Mio Cid dal suo isolamento e lo mette in relazione con altri due generi: la cronaca, da parte dotta, e il romance da parte popolare.
Pidal sosteneva una tradizione ininterrotta dal Cantar de Mio Cid fino ad oggi (romances della guerra civile nel ’36), considerando i romances epici come influenzati dai cantares, compresi quelli andati perduti. Anzi, i romances erano ritenuti risultati di una sorta di “decomposizione” del poema, mentre le cronache, come si è detto, contenevano prosificazioni degli stessi poemi. Questo vale naturalmente per i romances “epici”. Quelli di tema “fronterizo”, religioso, mitologico e biblico cadono al di fuori del nostro tema e costituiscono un problema a sè.
La tesi menendezpidaliana rimane a tutt’oggi, nel suo nucleo essenziale, la teoria più solida, nonostante alcune confutazioni su particolari di contorno. E’ vero anche però che questo aggettivo, “solido”, assume qui un valore piuttosto relativo. I romances e i cantares si sono per lungo tempo trasmessi oralmente, e le origini del genere si perdono nei meandri del Medioevo. Se si pensa che i primi documenti attendibili risalgono a epoche relativamente vicine a noi, ecco che ci accorgiamo di avere a che fare con nient’altro che la punta di un iceberg: il primo documento scritto è il “cartapacio di Jaume de Olesa”, conservato a Firenze, che risale al 1471. Le raccolte a stampa sono ancora più tarde: Il “Cancionero” di Hernan del Castillo è del 1511; Martin Nucio stampa le sue raccolte alla metà del XVI secolo. Non abbiamo quindi nessun documento concreto fino al 1471. Cosa sia successo, come si sia sviluppato il genere epico in tutto questo tempo, non è che materia per congetture, tutte egualmente buone come tutte egualmente false.
Un aiuto ci potrebbe venire dai pliegos, fogli sui quali venivano stampati dei romances e che venivano venduti a prezzo infimo per la strada. Questi però sarebbero utili solo nel caso che riportassero versioni “inedite”, e comunque sarebbero anteriori di non oltre un secolo alle raccolte di Del Castillo e di Nucio, che li utilizzarono tra l’altro come fonte. Concludendo, di tutto lo sviluppo del genere conosciamo soltanto gli ultimi stadi. Rimangono da definire le risposte a molte domande, Per esempio, non si capisce perchè il Cid abbia una personalità da perfetto vassallo nel “Cantar” e da perfetto indipendendista nei romances; da quali suggestioni estranee a quelle da noi conosciute nascano i trentasette versi del romance “Cabalga Diego Lainez” che non hanno relazione col “Cantar”, come nota gisutamente Fouchè-Delbosc nello stesso anno (1914) in cui Menendez Pidal annuncia la scoperta del romance “La jura de Santa Gadea” in un’antica versione manoscritta; perchè infine i versi di questo romance abbiano più affinità con quelli del Cantar che con quelli prosificati nelle cronache, anche se nel romance la personalità del Cid, come si è visto, è rovesciata rispetto al poema (intento parodistico? Adeguamento al gusto del pubblico?) Abbiamo in mano dei tasselli scompagnati che non sappiamo mettere insieme, e la sia pure monumentale opera di Menendez Pidal non ha chiarito che un decimo di quello che manca, e a meno di eccezionali scoperte continuerà a mancare, nella storia della letteratura spagnola medievale.