Libri, “Malacarne” di Annacarla Valeriano

Vi  segnalo volentieri  un libro, Malacarne, Donne e manicomio nell’Italia fascista, di Annacarla Valeriano, edito da Donzelli. Il volume tratta dell’ uso fatto a suo tempo dei manicomi per reprimere i comportamenti femminili ritenuti trasgressivi.

L’autrice ha esaminato le cartelle cliniche delle ricoverate in uno specifico manicomio, quello di Sant’Antonio Abate di Teramo, a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento fino al 1950. Ne emerge, appunto, il ruolo del manicomio come luogo dove isolare tutti coloro che, per un verso o per un’altro, avevano comportamenti socialmente non accettabili.

All’istituzione psichiatrica vengono consegnate «quelle donne che rifiutano di conformare il proprio stile di vita agli ideali proposti dal fascismo e che, proprio per questa ragione, hanno bisogno di essere rieducate attraverso la disciplina manicomiale per riportare le loro condotte entro i recinti di una normalità biologicamente e socialmente costruita».

In realtà, precisa l’autrice, questo atteggiamento non è tipico del ventennio fascista, ma derivava già dall’ottocento, e il regime se ne servì per isolare donne che non rientravano nella visione mussoliniana del femminile.

Il “Cantar de mio Cid” e le sue relazioni con storia, Romances e cronache

Il “Cantar de Mio Cid” è attualmente una delle poche prove concrete, se non l’unica, dell’esistenza di un’epica sviluppata in lingua spagnola, essendo poemi come quello degli “Infantes de Lara” nient’altro che una ricostruzione, sia pure su basi attendibili. La data della sua affettiva composizione rimane a tutt’oggi incerta: Menendez Pidal, conformemente alla sua tesi di contemporaneità dei poemi agli avvenimenti narrati, lo data attorno al 1100, mentre studi successivi lo dicono non anteriore al 1200 almeno. Rispetto ai poemi epici di altri paesi, come ad esempio l’inglese “Beowulf”, la tedesca saga dei Nibelunghi, o anche soltanto alla “Chanson de Roland”, il Cantar ha come caratteristica una storicità più marcata, come se l’autore (o gli autori) si fossero dati pena di svolgere delle indagini, o, come dice Menendez Pidal, ne fossero stati testimoni oculari. In ogni caso, il Cantar non racconta solo una leggenda.

L’unica copia del Cantar in nostro possesso è una trascrizione ad opera, stando all’explicit, di un certo Per Abbat, che gli studiosi hanno datato al 1307 rifacendosi allo stesso explicit. Il manoscritto fu scoperto nel secolo XVI nell’archivio di Bivar. Studi recenti (Michael) hanno fatto di questo manoscritto andato perduto, sulla base di indagini paleografiche sul testo. Comunque, con questo manoscritto si pone un “terminus ante quem” per la composizione del poema.

Anche quest’unica copia pone comunque dei problemi, perchè il suo stato di conservazione non è dei migliori. Il manoscritto ha cambiato spesso proprietario nel corso della sua storia, e quasi mai è stato tenuto bene. Di conseguenza, macchie di umidità ed altre di vario tipo e natura nascondono alcuni punti del testo. Ad esse si aggiungono i danni provocati dall’uso indiscriminato di sostanze corrosive atte a far riaffiorare lo scritto (in dosi troppo forti e troppo ripetutamente). Solo l’invenzione delle lampade infrarosse ed ultraviolette e la scoperta dei raggi X hanno potuto risolvere questi problemi, ed oggi costituiscono il principale strumento di indagine filologica.

Ciò in cui questi mezzi non possono essere d’aiuto è invece la mancanza, anch’essa probabilmente dovuta ad incuria, di alcune pagine, precisamente la prima del primo quaderno, ed altre due pagine nel settimo e nell’ottavo rispettivamente. Michael sostiene che, sebbene ogni pagina contenga 24 o 25 versi, non è sicuro che questa prima pagina del primo quaderno contenesse una parte di testo; ad ogni modo tutti coloro che si sono occupati del Cantar hanno cercato di ricostruire i versi mancanti: alcuni li ricostruì Bello, il primo ad occuparsi seriamente di quest’opera. Fu però Ramon Menendez Pidal che portò il numero dei versi a 12, e un tredicesimo fu dedotto da Samuel G. Armestead. Queste parti mancanti furono ricostruite attraverso le prosificazioni dei cantares, usati come materiale storico dai compilatori di cronache. Questo metodo rientra nella tesi chiamata menendezpidaliana o tradizionalista, che toglie il Cantar de Mio Cid dal suo isolamento e lo mette in relazione con altri due generi: la cronaca, da parte dotta, e il romance da parte popolare.

Pidal sosteneva una tradizione ininterrotta dal Cantar de Mio Cid fino ad oggi (romances della guerra civile nel ’36), considerando i romances epici come influenzati dai cantares, compresi quelli andati perduti. Anzi, i romances erano ritenuti risultati di una sorta di “decomposizione” del poema, mentre le cronache, come si è detto, contenevano prosificazioni degli stessi poemi. Questo vale naturalmente per i romances “epici”. Quelli di tema “fronterizo”, religioso, mitologico e biblico cadono al di fuori del nostro tema e costituiscono un problema a sè.

La tesi menendezpidaliana rimane a tutt’oggi, nel suo nucleo essenziale, la teoria più solida, nonostante alcune confutazioni su particolari di contorno. E’ vero anche però che questo aggettivo, “solido”, assume qui un valore piuttosto relativo. I romances e i cantares si sono per lungo tempo trasmessi oralmente, e le origini del genere si perdono nei meandri del Medioevo. Se si pensa che i primi documenti attendibili risalgono a epoche relativamente vicine a noi, ecco che ci accorgiamo di avere a che fare con nient’altro che la punta di un iceberg: il primo documento scritto è il “cartapacio di Jaume de Olesa”, conservato a Firenze, che risale al 1471. Le raccolte a stampa sono ancora più tarde: Il “Cancionero” di Hernan del Castillo è del 1511; Martin Nucio stampa le sue raccolte alla metà del XVI secolo. Non abbiamo quindi nessun documento concreto fino al 1471. Cosa sia successo, come si sia sviluppato il genere epico in tutto questo tempo, non è che materia per congetture, tutte egualmente buone come tutte egualmente false.

Un aiuto ci potrebbe venire dai pliegos, fogli sui quali venivano stampati dei romances e che venivano venduti a prezzo infimo per la strada. Questi però sarebbero utili solo nel caso che riportassero versioni “inedite”, e comunque sarebbero anteriori di non oltre un secolo alle raccolte di Del Castillo e di Nucio, che li utilizzarono tra l’altro come fonte. Concludendo, di tutto lo sviluppo del genere conosciamo soltanto gli ultimi stadi. Rimangono da definire le risposte a molte domande, Per esempio, non si capisce perchè il Cid abbia una personalità da perfetto vassallo nel “Cantar” e da perfetto indipendendista nei romances; da quali suggestioni estranee a quelle da noi conosciute nascano i trentasette versi del romance “Cabalga Diego Lainez” che non hanno relazione col “Cantar”, come nota gisutamente Fouchè-Delbosc nello stesso anno (1914) in cui Menendez Pidal annuncia la scoperta del romance “La jura de Santa Gadea” in un’antica versione manoscritta; perchè infine i versi di questo romance abbiano più affinità con quelli del Cantar che con quelli prosificati nelle cronache, anche se nel romance la personalità del Cid, come si è visto, è rovesciata rispetto al poema (intento parodistico? Adeguamento al gusto del pubblico?) Abbiamo in mano dei tasselli scompagnati che non sappiamo mettere insieme, e la sia pure monumentale opera di Menendez Pidal non ha chiarito che un decimo di quello che manca, e a meno di eccezionali scoperte continuerà a mancare, nella storia della letteratura spagnola medievale.

Libri, “Atlante delle emozioni umane”

Un libro che mi sento di consigliare…. 


Atlante delle emozioni umane di Tiffany Watt Smith. Con la traduzione di Violetta Bellocchio.

Siamo tutti in grado di riconoscere la differenza tra rabbia e paura, tra desiderio e invidia. Sappiamo anche che è meglio non confondere l’affetto con l’amore, il rimpianto con il rimorso, l’euforia con la felicità.

Quello di cui non ci rendiamo conto, però, è che lo spettro delle emozioni umane è ancora più sfumato di così: esistono sensazioni che tutti noi abbiamo provato, stati d’animo molto precisi e inconfondibili, a cui però spesso non abbiamo saputo dare un nome.

Eppure in qualche angolo del mondo, in qualche lingua a noi ignota esiste una parola precisa che li definisce: per esempio solo gli eschimesi chiamano iktsuarpok il miscuglio di ansia, nervosismo, eccitazione e felicità che prova chi aspetta l’arrivo di ospiti a casa; per i finlandesi, kaukokaipuu è l’inspiegabile nostalgia per un posto dove non siamo mai stati; gli spagnoli chiamano vergüenza ajena l’imbarazzo empatico di chi assiste alle figuracce altrui.

Tiffany Watt Smith attraversa storia, antropologia, scienza, arte, letteratura e musica in cerca delle espressioni con cui le culture di tutto il mondo hanno imparato a definire le proprie emozioni.

Tiffany Watt Smith, storica culturale, dal 2012 insegna Culture of Sleep presso la School of English and Drama dell’università Queen Mary di Londra. Attualmente è ricercatrice presso il Centre for the History of the Emotions. Ha collaborato con “BBC Magazine”, “The Guardian”, “The New Scientist” e “BBC radio”.

(Fonte: Ufficio Stampa Utet)

Libri, “Non guardare nell’abisso” di Massimo Polidoro

polidoro_abissoQuesto post può sembrare off topic, ma non lo è più di tanto.

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Aggiornamento del 12/6/2016. 

Ormai da qualche giorno ho terminato il nuovo libro di Massimo Polidoro “Non guardare nell’abisso”, che ho avuto il piacere di ricevere in anteprima in quanto membro della squadra di lancio.

E’ stato molto facile arrivare in fondo, il che significa che la sua struttura come thriller è molto ben costruita. Insomma, confermo l’impressione di qualche tempo fa: si tratta di un libro che acchiappa.

I personaggi sono credibili, la storia è credibile e soprattutto entrambi sono “multidimensionali”, cioè, umani, complessi. Ci si può identificare in ognuno di loro. Il che non è cosa da poco. Una lettura che mi sento di consigliare a chi ama il thriller, ma anche a chi (come me) è interessato a come si costruiscono le storie e allo studio dei personaggio.

Il libro è in uscita il prossimo 21 giugno. Casualmente, il primo giorno d’estate. Vale la pena portarselo al mare.

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Sono lieto che Massimo Polidoro mi abbia incluso nella “squadra di lancio” del suo nuovo thriller “Non guardare nell’abisso“, in uscita il prossimo 21  Giugno per i tipi di Piemme.

Leggere un libro in anteprima è sempre un’emozione. Ti fa sentire un po’ esploratore. E del resto, come sa chi mi legge,  esplorare dovrebbe essere il nostro costante “modus vivendi”. Ecco perché il post non è così off topic.

Conoscevo ed apprezzavo Polidoro come studioso e giornalista, nonché come colonna del Cicap, il comitato che studia il “paranormale” dal punto di vista scientifico. Sapevo che aveva già pubblicato un’altro thriller, “Il passato è una bestia feroce“. Adesso, ecco una nuova inchiesta di Bruno Jordangiornalista un po’ sui generis che finisce spesso per trasformarsi in investigatore.

Ora come ora, sono a pagina 51 su circa 400, quindi non ho idea di come andrà a finire la vicenda. E ovviamente, anche quando lo saprò non ve lo dirò di sicuro. Ma posso dirvi che si tratta di un libro che ti acchiappa.  Tanto è vero che l’ho cominciato ieri,  e nonostante lo stia leggendo tra un task e l’altro sono già a un ottavo della lettura. Quindi, fate voi.l

Il libro, come si diceva, uscitrà il 21 Giugno. Fino ad allora penso di postare ogni giorno una frase che mi ha colpito. Giusto per stimolare la parte creativa del mio cervello…

Film, “The Hateful Eight” di Quentin Tarantino

A cura di Francesca Fiorentino

Thetarantino_hateful_eight Hateful Eight su Amazon.it

Durante una funesta tempesta di neve, una diligenza con a bordo due cacciatori di taglia, una “preda” e il futuro sceriffo di Red Rock, approda all’emporio di Minnie, un luogo che ospita altri viandanti. In un clima irreale si consuma un “uno contro tutti” di portata colossale.

Sì, abbiamo atteso The Hateful Eight sin dai titoli di coda di Django Unchained e sì, dobbiamo ancora digerirlo. Succede sempre così con i film di Quentin Tarantino. Alla prima visione restiamo spiazzati, quasi sfibrati da tanta potenza. Poi, piano piano, le storie cominciano a farsi strada e ci ritroviamo a canticchiare il motivo principale della colonna sonora (in questo caso firmata da Ennio Morricone) o a ripensare a quel dettaglio che pareva inutile e invece si rivela essenziale alla comprensione del racconto.

Secondo “western” della gloriosa carriera di Tarantino, The Hateful Eight a detta di molti è l’opera più matura e risolta del regista. Di certo non possiede quell’allure citazionista e quello spirito “pop” a cui eravamo abituati, e per questo sembra austero, quasi noioso; ma l’opera è un ritratto nerissimo di un’America affatto pacificata, che proprio nel momento di massimo splendore del suo mito, alla fine della Guerra di Secessione, con la sconfitta dello schiavismo e l’inizio dell’era democratica di Abraham Lincoln, pianta le radici di una violenza senza fine e senza scopo.  La violenza non sembra nascere da una risposta a un’offesa, ma è logica conseguenza di una pace infranta, costruita su presupposti lacunosi.

Il film è girato magnificamente, con una maestria rara. Da vedere nonostante tutto.

Film “Steve Jobs”, di Danny Boyle

A cura della Redazione Spettacoli 
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Per tutti quelli che non lo sapessero, Aaron Sorkin è considerato uno degli scrittori e sceneggiatori più importanti al mondo. Autore di un cult della serialità televisiva, West Wing, Sorkin sa come pochi altri stordire lo spettatore con il profluvio di parole dei suoi personaggi, che affascinano o infastidiscono in egual misura, ma quasi mai lasciano indifferenti. Ecco perché l’idea che proprio lui potesse scrivere un film dedicato ad una delle figure più importanti e controverse degli ultimi anni, Steve Jobs, faceva già discutere prima che lo stesso film vedesse la luce.
L’opera, diretta da Danny Boyle e interpretata splendidamente da Michael Fassbender, è un magnifico esempio di biopic. Originale e non banale, quello di Boyle è un ritratto inedito del fondatore della Apple, immortalato in alcuni momenti chiave della sua vita professionale (sempre alla vigilia della presentazione di un nuovo progetto), che nulla ha a che vedere con la banalità dello stereotipo e che molto dice di un uomo maniacale, poco accondiscendente, geniale ma anaffettivo, circondato da pochi amici veri (la sua assistente, una straordinaria Kate Winslet) e da tanti “nemici”.
L’accoppiata Boyle-Sorkin (difficile scindere le due unità considerato che il film è essenzialmente strutturato su dialoghi massacranti) ci parla di Jobs come di un uomo disperatamente connesso alla vita grazie a pochi appigli, il più importante dei quali è quello della figlia, nata da una relazione giovanile e riconosciuta dopo molti anni. E’ questa figura pura a rappresentare l’ideale controcanto di un artista dal cuore di ghiaccio, sempre proteso al futuro ma essenzialmente incapace di relazionarsi con i suoi simili.
E questo filo rosso che lo lega alla figlia è anche l’elemento narrativo più solido del film che in certi punti tende a slegarsi e a perdere di vista il suo focus, ma che Boyle riesce egregiamente a condurre fino alla fine.

Film, “Creed – nato per combattere” di Ryan Coogler

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A cura della Redazione Spettacoli

“Creed” su Amazon.it

Ryan Coogler aveva già colpito la critica con il suo bel film d’esordio, Prossima fermata Fruitvale Station, ispirato ad un tragico fatto di cronaca. Aspettato al varco dai critici, si conferma come buon regista anche con l’opera seconda, Creed – Nato per combattere, spin off della celeberrima saga di Rocky. P

rotagonista è infatti Adonis Creed (Michael B. Jordan), figlio illegittimo di Apollo Creed e desideroso di seguire le orme paterne. Bambino problematico, cresciuto in orfanotrofio, Donnie viene adottato dalla vedova di Apollo e diventa ben presto un giovane destinato ad una grande carriera negli affari.

Adonis però è alla ricerca di una propria identità, qualcosa che solo la boxe può dargli. Lascia così un importante posto di lavoro e si mette sulle tracce dell’unico uomo che possa aiutarlo: Rocky Balboa. Piombato a Philadelphia, il ragazzo si rimbocca le maniche e si lancia in un serrato “corteggiamento” dell’ex campione di pugilato che, dapprima infastidito dalle richieste del giovane, decide di seguirlo e allenarlo. Insieme formeranno un duo capace di resistere ai colpi più duri. Compresa la malattia che giorno dopo giorno sfianca Rocky.

Impossibile rimanere fermi sulla poltroncina quando riecheggiano furbamente le note della colonna sonora di Rocky, nel bel mezzo del combattimento cruciale di Adonis e questo la dice tutta sul senso di un’operazione cinematografica intrisa di nostalgia e di sincera ammirazione per un eroe di celluloide come Rocky.

E’ la forza di questo film e paradossalmente ne è anche il limite, perché la presenza di un personaggio carismatico come quello interpretato da Sylvester Stallone (destinato all’Oscar dopo aver vinto il Golden Globe) diventa il catalizzatore unico di una storia che in realtà avrebbe dovuto poggiare su un’altra figura, quella di Adonis.

Qualche sbavatura nella sceneggiatura, troppo scontata in certi passaggi, se non addirittura fotocopiata dal primo Rocky, appesantiscono la visione che tuttavia è ampiamente ripagata dalla bellezza delle riprese nelle sequenze di combattimento, molto crude ed efficaci. Da vedere.

Film, “Carol” di Todd Haynes

A cura della Redazione Spettacoli 
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New York, anni 50. Carol è una ricca signora dell’altissima borghesia ormai stanca di una vita oppressiva. Quando incontra la giovane commessa Therese, in realtà fotografa provetta, non immagina che tutto il suo perfetto universo di signora impeccabile stia per collassare. Un tocco fugace, un dialogo inaspettato e per le due donne inizia una storia d’amore appassionante e travolgente che le porrà di fronte a scelte difficilissimi da compiere. L’ex marito di Carol, infatti, disgustato dalle scelte della moglie, che già prima di allora lo aveva tradito con un’altra donna, le sottrae l’amata figlioletta.
Di fronte al film di Todd Haynes, Carol, si resta ammaliati dalla ricchezza di dettagli della messa in scena, dalla morbidezza della fotografia di Edward Lachman e dall’eleganza dei costumi di Sandy Powell. Eppure il nucleo emotivo della storia, quello di un sentimento fortissimo che lega due persone considerate come colpevoli dalla società americana dell’epoca, resta quasi congelato in questa costruzione formale di grande bellezza. Non è un difetto, ma una caratteristica sorprendente di questo mélo che non riesce ad esplodere neanche nell’unica scena d’amore tra le due bravissime protagoniste, Cate Blanchett e Rooney Mara, forse la migliore del duetto.
Dicevamo caratteristica sorprendente, peculiare, del film (tratto dal romanzo di Patricia Highsmith The price of salt, disponibile su amazon.ithttp://www.amazon.it/Carol-LIBRI-DI-PATRICIA-HIGHSMITH-ebook/dp/B008RB28TA/ref=sr_1_1?s=books&ie=UTF8&qid=1452671143&sr=1-1&keywords=the+price+of+salt), che però proprio per questa sua anima algida non riesce a sconvolgerci nel profondo. Resta tuttavia la maestria registica di Haynes capace di trasformare il suo sguardo in una penna stilografica che cattura e traduce il dramma con grande efficacia.

Film, “Quo Vado” di Gennaro Nunziante con Checco Zalone

A cura della Redazione Spettacoli 

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In Italia il pubblico si divide in due categorie: quelli che hanno visto il nuovo film di Checco Zalone, Quo vado?, e quelli che ancora non lo hanno fatto. In sostanza è impossibile ignorare un fenomeno di queste proporzioni, destinato a stracciare ogni record di incassi del nostro paese.

Un primato che è stato accolto da numerose polemiche, legate all’invasione delle sale (una diatriba puramente commerciale, quindi) e alla bassa qualità del prodotto, con conseguente riflessione sulla crisi della nostro cinema, capace di raggiungere numeri ragguardevoli solo con proposte mediocri (e il discorso si fa quindi squisitamente etico ed estetico).

Chi vi scrive pensa che spiegare il successo di Zalone come trionfo della bruttezza tout court, accusando il pubblico di essere “basso e crasso” è una sconfitta in partenza. Gli spettatori mostrano il loro affetto ad una figura comica che hanno imparato ad apprezzare nel tempo e che non li deluderà, in termini di risate e situazioni paradossali. Sanno cosa aspettarsi da un film del genere e puntualmente vengono soddisfatti.

E’ un punto a favore di Zalone, a cui non si può certo rimproverare mancanza di furbizia. In questo caso, poi, le speranze sono riposte con maggiore efficacia, visto che la storia ha una marcia in più rispetto alle precedenti pellicole. Il protagonista, Checco, è un innamorato del posto fisso che a causa di una riforma governativa sarebbe costretto a lasciare. Riuscirà con faccia tosta, fortuna e oltraggiosa tenacia a mantenerlo. Salvo poi riflettere sul senso della vita a causa di una donna.

Non è un capolavoro, sia chiaro, ma in certi momenti Zalone (Luca Medici) riesce ad essere divertente e a operare una blandissima critica ad una generazione, ormai scomparsa, di privilegiati. 

Film, “Star Wars – Il risveglio della forza”

A cura della Redazione Spettacoli

Il-Risveglio-della-Forza-copertinaStar Wars su Amazon.it

Sì, l’uscita del settimo capitolo della saga di Star Wars,  Il risveglio della Forza è un evento epocale e non solo per la quantità di soldi incassati dal film diretto da J.J. Abrams, ma perché esso ci permette di rileggere sotto una nuova luce la storia raccontata fino ad oggi e di ritrovare quei vecchi, amati, personaggi che tutti i fan hanno adorato.

Quest’opera è naturalmente il prodotto di una filosofia commerciale molto spiccata e sarebbe impossibile affermare il contrario, ma quello che ci ha colpito positivamente è il tono a tratti elegiaco, genuinamente adorante che Abrams ha utilizzato per narrare dei suoi eroi. E’ un film, insomma, girato da uno starwarsiano doc, per tutti coloro che non sono mai entrati appieno nell’universo di Star Wars; ed è forse meno diretto ai severissimi esegeti della saga di Lucas che, sull’onda delle perplessità di patron George, ne hanno già decretato il fallimento.

Più reboot che sequel vero e proprio (in sostanza è una “rilettura” riveduta e corretta di Episodio IV), Il risveglio della Forza propone un villain nuovo di zecca, Kylo Ren, un malvagio in maschera che tanto ricorda Darth Vader e un’eroina che ci ha conquistato per il suo coraggio, Rey, una giovane donna da cui dipenderà il destino dell’Universo, sempre in bilico tra Luce e Oscurità. Al suo fianco ci saranno anche il Generale Leia Organa e il leggendario Han Solo, accompagnato dal prode Chewbacca, legati a doppio filo a quella ragazza battagliera e senza paura.

Girato magnificamente, con sequenze di combattimento e battaglie aeree emozionanti, Episodio VII è un’opera godibile e divertente, che piacerà senza riserve a chi nel buio di una sala cinematografica sogna ancora senza smettere mai. Da vedere.