Film, “il nome del figlio”, di Francesca Archibugi

A cura della Redazione spettacoli

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Il film è disponibiile su Amazon.it

E’ una serata piovosa a Roma. Betta sta preparando la cena da alcune ore ormai. Vuole che sia tutto perfetto per l’arrivo del fratello Paolo, della di lui moglie Simona, stella della letteratura fai da te (quella che si fa con i ghost writer) e dell’amico d’infanzia Claudio. In salotto il marito di Betta, Sandro, twitta instancabilmente per mantenere vivo il contatto con un mondo da cui sembra sempre più isolato, nonostante il prestigioso lavoro di professore.

Cosa mai potrebbe andare storto in quello che si annuncia come il più classico e noioso degli incontri familiari? E’ presto detto, Paolo raggiunge la casa della sorella con una notizia fondamentale; insieme a Simona hanno deciso il nome del primogenito che si chiamerà Benito. Alla proclamazione del nome, Betta, Sandro e Claudio restano sconvolti e iniziano ad attaccare la scelta considerandola politicamente scorretta e di cattivo gusto, soprattutto per il discendente di una storica famiglia ebraica. Benito, infatti, è e rimarrà sempre nella memoria come il nome del dittatore che ha insanguinato l’Italia.
In un vorticoso gioco di accuse, la serata prende una piega quasi drammatica e alla rivelazione della burla, ormai la frittata è fatta. Emergono infatti tutti i segreti tenuti sotto chiave, le recriminazioni mai fatte, i rancori, le invidie e i veleni. Fino a quando Simona non deve essere portata in ospedale per partorire.
Ha sicuramente delle grandi qualità l’ultimo film di Francesca Archibugi, Il nome del figlio, remake italiano del francese Cena tra amici. In primis, l’efficacia di un cast che raccoglie il meglio del cinema di casa nostra con un Alessandro Gassman mattatore assoluto, la simpatia di Micaela Ramazzotti e di Rocco Papaleo e la bravura di Luigi Locascio e Valeria Golino. Poi la capacità di gestire il crescendo delle emozioni raccontate, alternando parossismo e dramma, con una buone dose di umorismo e solo qualche caduta di tono.
C’è però qualcosa che non lascia pienamente soddisfatti, ed è una certa artificiosità nei dialoghi, volti sempre a dimostrare una tesi propugnata da un personaggio o dall’altro, con il risultato di appesantire la naturalezza della situazione. Lo promuoviamo però perché alla fine è un film che parla di rapporti tra padri e figli, di separazioni da compiere e di nascere da preservare. Non è poco.

Il Credo della persona responsabile

Se dovesse arrivare l’inverno, per quanto lungo

troverò la forza di aspettare la primavera

Io sono responsabile

Se dovesse mancarmi l’amore, e mi sentissi abbandonato

sarà mia cura amare io per primo, e spezzare la solitudine.

Io sono responsabile.

Se perdessi ogni bene materiale,

e lo spettro della miseria aleggiasse su di me

imparerò cose nuove, vorrò ancora più bene al mondo e a me stesso.

Io sono responsabile. 

Se la salute mi abbandonasse, e mi sentissi stanco

cercherò vie nuove per migliorare il mio benessere

e farò quello che mi è possibile senza rimpiangere il resto.

Io sono responsabile. 

Se mi trovassi di fronte alla morte, crederò di poter vivere ancora

e trasmetterò questo messaggio a chi rimane.

Io sono responsabile. 

Che cos’è davvero il successo?

lente_ingrandimentoIl successo è fare della propria  vita quello che si vuole (Anonimo).

Non è detto che il successo sia vendere tanto di qualcosa o avere un bel macchinone. Certo, se queste cose ti piacciono, è evidente che per te quello è il successo. Ma occorre sempre domandarsi se le mete le abbiamo decise noi o ci vengono poste da qualcun altro.

Per fare questa distinzione occorre concentrarsi sulle nostre sensazioni. Come ci fa sentire quello che stiamo facendo? Se ci fa sentire bene, è cosa buona. Se no, no.  Se sentiamo che ci fa vibrare, allora davvero fa parte della nostra mission. Altrimenti vuol dire che stiamo vivendo la mission, il sogno di qualcun altro.

Dal momento che comunque saremo  e siamo responsabili di quello che facciamo, tanto vale fare quello che vogliamo davvero fare.

Anche in questo caso, tutto sta nel cominciare.

 

 

Film, “C’era una volta a New York” di James Gray

A cura della Redazione Spettacoli
Presentato in concorso alla  66ma edizione del Festival di Cannes, The Immigrant   (C’era una volta a New York nella bislacca traduzione italiana) ha deluso i critici. In molti hanno ravvisato una certa banalità nel racconto e un modo molto piano di narrare le drammatiche vicende della protagonista. Crediamo di aver compreso cosa abbia fatto storcere il naso nel film di James Gray: la sua dimensione strettamente, diremmo sfacciatamente, melò.
Noto per i “noir” metropolitani degli esordi (Little Odessa, The Yards, I padroni della notte), ambientati in piccole comunità di malavitosi, Gray ha virato decisamente verso il genere sentimentale consegnandoci con Two Lovers prima e The Immigrant ora delle figure maschili interessanti, incastrate tra il desiderio di amare e la tensione autodistruttiva.
In questo ultimo lavoro, la protagonista è una bellissima immigrata polacca, Ewa, che negli anni ’20 arriva a New York con la sorella Magda per cambiare vita. A Ellis Island la donna viene separata dalla sorella, malata di tubercolosi, e inizia per lei un’odissea che la porterà a conoscere l’ambiguo Bruno, signore apparentemente distinto che si rivela essere un protettore.
Ewa, allontanata dalla sua famiglia che la crede una poco di buono (in realtà ha subito violenza sulla nave che l’ha portata in America), è costretta a prostituirsi per guadagnare i soldi che servono per pagare le cure di Magda. Desiderosa di riscattarsi, la giovane deve fare i conti con il lato oscuro di una nazione che per lei rappresentava il sogno.
Se tutto il film è concentrato sulla dolente figura femminile incarnata da una bravissima Marion Cotillard, che recita anche in polacco, è in realtà il suo opposto maschile, Joaquin Phoenix (attore feticcio di Gray) a connotare la storia di melodrammatica intensità. E’ lui, il mostro della storia, a rivelarsi in realtà un personaggio salvifico e vitale e a trasformare l’opera in un qualcosa di originale, forse non completamente riuscita, ma interessante.

A nostro agio, dormendo su una panchina…

panchina2Mio nonno materno, essendo nato nel 1910, aveva vissuto in pieno la crisi del ’29.  A parte questo, ovviamente, si era sciroppato in modo diretto o indiretto, due guerre mondiali. Ma diceva sempre che aveva imparato molto dal crack del ’29, e soprattutto dal fatto di essere tranquillamente sopravvissuto, come accadde, fino al 1993, anno in cui morì serenamente di vecchiaia.

Cosa aveva imparato mio nonno? Mettendola in soldoni, che i beni materiali contano molto meno della nostra capacità di essere creativi e sopravvivere. Per la mia generazione, questo è un discorso abbastanza privo di senso. Io stesso, lo ammetto, sono legato alla “mia” casa, ai “miei” libri, al “mio” computer e via andare. Ma se con lo sguardo della nostra mente ci spingiamo appena un po’ sotto la superficie, ci rendiamo conto del fatto che… col cavolo che le cose sono nostre!

La ruota della fortuna gira in continuazione, cari miei. Non è una minaccia, è una promessa. Consideriamo “nostre” le cose solo per abitudine. In realtà, potremmo perdere tutto tra cinque minuti. Così come fra cinque minuti potremmo essere morti o vincere alla lotteria, o trovare la persona della nostra vita.

Questo fatto, però, non dovrebbe causarci angoscia, nè trovarci impreparati. Al contrario: ci pensate se davvero, anche di fronte a catastrofi di dimensioni immani, fossimo sempre capaci di pensare: cristo che casino, ma ora rimbocchiamoci le maniche?

Riconosco che io stesso mentre scrivo ‘ste cose dico a me stesso: ma sei scemo, non posso sopravvivere senza il “mio” televisore piatto. Eppure. Eppure, sono sempre più convinto, personalmente, che la più grossa conquista per noi sia quella di trovarsi a dormire su una panchina e pensare: d’accordo, è un periodo difficile, ma ce la farò. Ho tutte le risorse necessarie.

Film: “Smetto quando voglio” di Sydney Sibilia

A cura della Redazione Spettacoli
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Se c’è un genere che ha reso l’Italia grande nella storia del cinema, quello è proprio la commedia. Commedia italiana e non all’italiana, perché i nostri autori non si limitavano ad applicare una formula matematica, sfornando prodotti fotocopia, ma creavano ogni volta qualcosa di diverso, nuovo, qualcosa che ci permettesse di leggere meglio la realtà contemporanea e analizzarla nel profondo. Quando un film comico è scritto bene rende possibile una piena comprensione dei tempi moderni, forse di più e meglio rispetto ad un film drammatico.
E’ così per l’opera prima di Sydney Sibilia, Smetto quando voglio, spericolata analisi del mondo del precariato e ode a quelle persone che vengono raramente valorizzate nel nostro Belpaese.
I protagonisti, interpretati da un gruppo di attori eccezionali, sono dei laureati, ex ragazzi (superano tutti la trentina) che in qualunque nazione mondiale sarebbero diventati ricercatori, professori, studiosi di primo piano, ma che dalle parti di Roma sono costretti a riciclarsi come benzinai, cuochi, assistenti degli assistenti degli assistenti universitari…tutti in nero, tutti con stipendi da fame, tutti incerti sul futuro.
Pietro (Edoardo Leo) decide di risolvere la crisi personale riguardante il mancato rinnovo del suo contratto di ricercatore neurobiologo trasformandosi nel creatore di una nuova smart drug, una sostanza ancora legale in Italia con cui fare tanti soldi. Assume il suo amico Alberto (Stefano Fresi, strepitoso), i latinisti benzinai  Mattia e Giorgio (Valerio Aprea e Lorenzo Lavia), Bartolomeo (Libero De Rienzo), un economista ossessionato dal poker, Arturo (Paolo Calabresi), archeologo affamato che lavora per il Comune e Andrea (Pietro Sermonti), antropologo dal cuore gentile che cerca invano di essere assunto da uno sfasciacarrozze.
Data la qualità dei cervelli in gioco, l’attività parte subito alla grande, ma quando i nostri eroi finiscono col pestare i piedi al Murena (Neri Marcorè), ex ingegnere, ora spacciatore ad honorem, la situazione precipita.
Il film di Sibilia è ben scritto e si gioca tutto sul contrasto tra la ricchezza intellettuale dei suoi protagonisti e le situazioni becere che si trovano a vivere. Non possiamo fare altro che sperare che a questo notevole esordio seguano altri film altrettanto riusciti e divertenti. Insomma, non smettere Sydney!