Dove vuoi che vada da qui?

Ecco una domanda che personalmente trovo potentissima, capace di sbrogliare matasse anche molto intricate. Si tratta in effetti di una variante del diventare saggi subito, ovvero adoperare al meglio le nostre conoscenze e le nostre capacità.

A chi (o a che cosa) facciamo questa domanda? La risposta naturalmente può variare a seconda della nostra cultura e della nostra (non) religione. Chi è credente, si rivolgerà ovviamente al suo Essere Supremo. Chi non lo è, riconoscerà comunque che ciò che chiamiamo “il mondo” è governato da regole, che vale la pena di conoscere e che possono anch’esse rispondere alla domanda di cui sopra.

Esiste fra l’altro anche una terza possibilità, una sorta di via di mezzo tra le due citate sopra, Quella di individuare un personaggio, storico o fittizio non importa, che per qualche motivo gode della nostra stima, e rivolgere a lui (o a lei) la nostra domanda: dove vuoi che vada da qui?

In realtà, anche questa domanda è uno dei tanti modi di prendere le distanze dai pensieri automatici per cominciare a comprendere chi siamo davvero e che cosa stiamo cercando.

Abituarsi a fallire (?!?!)

Qualche anno fa ebbi l’occasione praticare un po’ di teatro amatoriale. Mi portavano a questa esperienza diverse ragioni, ma soprattutto il desiderio di cimentarmi di fronte a un pubblico che, per dire, ti poteva anche mandare a quel paese in diretta. Facevo radio già da molti anni, ma era una cosa diversa. Quando sei davanti al microfono, sai che il pubblico c’è, ma non lo vedi.

In realtà, quei quattro anni di laboratorio teatrale mi dettero molto di più di quanto mi aspettavo, come spesso capita quando ci si butta in qualcosa di nuovo, specialmente se all’inizio lo sentiamo lontano dalle nostre corde, se ci porta a stravolgere un po’ le nostre abitudini e di conseguenza a modificare in una certa misura i nostri percorsi mentali.

Tanto per cominciare, il lavoro in gruppo. Fino a quel momento, per un verso o per un altro, avevo più o meno sempre lavorato da solo, o al limite con un paio di colleghi che però erano anche amici. Qui invece si trattava di relazionarsi con numero decisamente più ampio di persone, una quindicina, con cui realizzare un progetto molto articolato come appunto uno spettacolo teatrale.

Naturalmente non è stato tutto semplice, nonostante si trattasse di una cosa da dilettanti e non ci fosse in ballo chissà quale megaproduzione. Tanto per cominciare, per il nostro regista non faceva alcuna differenza. Mise subito in chiaro che, dilettanti o meno, avremmo comunque dovuto dare il centodieci per cento. E non scherzava affatto: basti pensare che, nelle due settimane precedenti il saggio, ci sparammo sei ore di prove al giorno, dalle sette di sera all’una di notte.

Ma a parte questo, la lezione più importante che penso di aver imparato dal teatro è che bisogna abituarsi a fallire. Sì, perché nella nostra cultura prendiamo spesso troppo sul serio il fallimento. Lo sentiamo come qualcosa di infamante e definitivo. In altre culture, come per esempio quella americana, fin da piccoli si viene stimolati a “fallire velocemente”. Ovvero, a sperimentare il più possibile, buttando giù idee e verificando se funzionano.

A noi europei questo può sembrare forse un atteggiamento un po’ autolesionista, ma è pur vero che (a) chi sperimenta non si butta a casaccio, ma comunque parte da un’ipotesi che ha un minimo di senso (b) una volta che eventualmente si è fallito, si impara comunque qualcosa che può essere utile per altre esperienze.