7 errori che commettiamo senza neanche rendercene conto

Di recente ho avuto modo di guardare un video sul canale Youtube di Come La Vita Quando Ti Sorride. Puoi guardarlo a tua volta partendo da qui sotto e cliccando su “Guarda su Youtube”.

L’autore del video (e dominus di CLVQTS) Mario Robecchi elenca sette errori che facciamo in genere senza pensarci. Per ciascuno di essi mi sono permesso di condividere alcune personalissime riflessioni.

  1. Mancanza di una meta. Errore capitale. Se non abbiamo un progetto nostro rischiamo di finire dentro al progetto di qualcun altro. Il che può anche andarci bene per un periodo, solo che dobbiamo tenere in conto che come facciamo gli interessi nostri noi non li fa nessuno, e che del resto gli obiettivi degli altri possono semplicemente non coincidere con i nostri.
  2. Valori confusi. Che cosa è davvero importante per noi? A volte pensiamo di saperlo, ma non è così. Corriamo da una parte e dall’altra, inseguendo compiti urgenti ma non importanti, e soprattutto urgenti per qualcun altro e non importanti per noi. Capire quali sono i nostri valori ci aiuta a decidere quali compiti sono davvero vitali per il nostro progetto di vita.
  3. Priorità sbagliate. Derivano anch’esse dalla mancanza di una meta precisa. Se non sappiamo dove stiamo andando sarà difficile mettere in ordine le priorità, ovvero cosa dobbiamo fare prima e cosa dobbiamo fare dopo. Sguazzeremo in un garbuglio di cose che si accavallano le une sulle altre, in un busy-ness senza una direzione che alla fine della giornata – della vita? – ci lascerà con una grande stanchezza, un pesante mal di stomaco e – cosa ancora più grave – con la sensazione che in fondo non abbiamo combinato moltissimo.
  4. Scarso entusiasmo. Ovviamente, se non abbiamo un piano preciso sarà difficile che crediamo in quello che stiamo facendo. Il caso tipico è quello del lavoro fatto esclusivamente per la pagnotta. Già la sera precedente andiamo a dormire pensando qualcosa tipo che palle, domani devo tornare in ufficio, o in fabbrica, o dovunque accidenti devo andare in base a un contratto che, accidenti a me, ho firmato. Questo per noi dovrebbe già essere un campanello d’allarme. O cambiamo lavoro, oppure troviamo qualcosa di interessante e significativo in quello che stiamo facendo. Questo ovviamente vale per ogni ambito della nostra vita.
  5. Ricerca di stimoli esterni. Non dovremmo mai consentire agli altri di definirci. Spetta a noi, e solo a noi, prenderci la respons-abilità della nostra vita. Spesso invece cerchiamo dagli altri una conferma della bontà del nostro agire, conferma che però non può che venire dalla nostra coscienza. Senza contare che raramente gli altri sono inclini a farci dei complimenti. Dal punto di vista strettamente statistico, sarà più probabile che ci ignorino o che cerchino di sminuirci per sentirsi meglio loro. In ogni caso, meglio fare affidamento principalmente su noi stessi, una volta che abbiamo stabilito il nostro piano.
  6. Poca autostima. Se noi per primi non crediamo a noi stessi, sarà difficile che gli altri credano in noi. Anche per un motivo piuttosto semplice: i primi respons-abili della nostra vita siamo noi. Questo ci viene riconosciuto, per usare una locuzione in uso da un po’ di tempo, senza se e senza ma. Gli altri possono interessarsi a noi, anche in modo benevolo e perfino affettuoso, ma non si tratta di un fatto scontato. Quindi, è opportuno pensare sempre che possiamo affrontare le nostre sfide anche con le nostre sole risorse. “Autostima” significa esattamente questo: non tanto pensare di essere Superman, quanto essere certi di poter imparare e quindi evolversi.
  7. Nessun progetto sociale. Il nostro progetto dovrebbe essere sì soddisfacente per noi – e ci mancherebbe – ma meglio ancora sarebbe se ha un valore vitale, e quindi etico, anche per gli altri. In questo modo, infatti, si esce dalla solitudine. Ad esempio, nel mio personalissimo caso, scrivere questo blog ha sicuramente un grande valore per me, perché scrivere mi aiuta a puntualizzare e chiarire a me stesso i miei pensieri. Allo stesso tempo, quello che scrivo si inserisce in un flusso informativo. Il fatto di averlo reso pubblico, infatti, comporta automaticamente che qualcuno possa leggerlo, e mentre legge possa fare le proprie considerazioni su quello che ho scritto. Che poi entriamo in relazione diretta o meno, questo ha scarsa importanza. Ciò che conta è il processo comunicativo in sé.

La zona grigia

E’ molto importante mettere in dubbio i pensieri limitanti, allo scopo di sbloccare le energie che questo tipo di pensieri tende ad assorbire e dirigerle verso scopi più vitali. Una metafora che sto sperimentando è quella della zona grigia. Ovvero, una zona di neutralità, dove i pensieri limitanti vengono relegati in modo da smorzarne l’importanza.

Anche i problemi, come spesso etichettiamo le sfide, possono essere spostati nella zona grigia. Spesso infatti non riusciamo a risolvere una situazione perché le associamo troppe emozioni, perlopiù negative. Rendendole in qualche modo più neutre, prendendone le distanze, il carico emotivo diminuisce e possiamo considerare le situazioni da un punto di vista più “esterno”, scovando così delle soluzioni che magari non avremmo neanche immaginato che esistessero quando eravamo “immersi” nel problema.

Il funzionamento di questa metafora è estremamente semplice. Si tratta di immaginare la situazione come un oggetto fisico, e figurarsi di spostarla da una zona che potremmo chiamare “nera” alla zona che abbiamo deciso di chiamare “grigia”.

Ovvio che sarebbe meglio riuscire a spostarla in un’ulteriore zona, energica e vitale, che potremmo definire “bianca”. Ovvero, vedere il problema per quello che è, uno stimolo alla crescita e allo sviluppo della nostra persona nel suo insieme. La zona grigia costituisce comunque un primo passo avanti nella ricerca di una soluzione costruttiva.

Risolvere il “disaggio”

In giro c’è una grande quantità di quelli che potremmo definire “disaggiati periferigi”. Cioè, in italiano, “disagiati periferici”. Si tratta di personaggi che se ne vanno in giro con la faccia cupa, pieni di “probblemàtighe” che “qualcuno” (il governo, Babbo Natale, Gesù Bambino…) dovrebbe risolvere al posto loro.

Nel frattempo, sono massicciamente incazzati col “mondo”, magari giustificando con questa incazzatura anche qualche piccolo o anche grande atto di teppismo, perché “ahò, in qualche modo dobbiamo pure facce sentì, no?”.

Cioè, la mente umana è capace di arrivare a un livello in cui si pensa che l’unica soluzione al “disaggio” è diventare distruttivi. Siamo veramente sicuri che sia una buona idea?

A casa mia, questo è un ottimo metodo… per aumentare sempre di più il “disaggio”. Certo, perché fare il teppista non porta ad altro che a essere considerato proprio questo e nient’altro. Se non sai che fare e spacchi una vetrina, l’unico a guadagnarci sarà il vetraio.

Quanto a te, se non ti beccano non avrai risolto nulla, e anzi ti identificherai sempre di più nel ruolo del “disaggiato periferigo”. Se ti beccano, presumibilmente e giustamente sarai punito, ma non capirai che succede perché stanno cercando di farti comprendere che non è quello il modo. Anzi, sarai ancora più convinto del fatto che “il mondo” ce l’abbia con te, e che hai fatto bene a “farti sentire”.

Mi dirai: ahò, ma allora come se ne esce? Semplice: rifiutandosi di recitare il ruolo del disaggiato periferigo. In cosa consiste esattamente il tuo disagio e il tuo essere periferico? Sei periferico rispetto a che cosa? Che cosa vorresti realizzare di etico, di costruttivo, se sapessi di non avere i limiti che hai, o per essere più precisi, se non avessi i limiti che pensi di avere?

Quello è il punto di partenza, quella è la bussola che ci deve guidare.. Uscire dal disagio e dalla periferia è prima di tutto una questione di pensiero. Dimentica quello che non funziona, lo sporco, il degrado. Meglio ancora, se c’è qualcosa di sporco ripuliscilo, se c’è del degrado comprendilo e comincia a pensare cosa si potrebbe migliorare, anche di poco. Se ti senti in periferia, cerca il tuo centro.

Come dici? Ahò, ariecchice con la respons-abbiliità. Certamente. “Il mondo” non ce l’ha con noi. Se siamo etici, vitali, e persistiamo nell’intento, ci verranno aperte le porte giuste. E saremo agiati centrali. Ma la decisione dipende sempre, esclusivamente da noi. Facciamo un passo avanti rispetto alla situazione in cui ci troviamo.

Qualunque cosa che ti impegni un po’

Molti non raggiungono i propri obiettivi perché li vedono troppo lontani, e non iniziano neanche a perseguirli. Si tratta di un ragionamento apparentemente corretto ma in realtà profondamente sbagliato dal punto di vista della vitalità. Ci convinciamo infatti di non essere capaci di raggiungere alcunché di significativo e ci lasciamo agganciare da quelli che Vadim Zeland chiama pendoli. Ovvero, non avendo un progetto nostro, finiamo prima o poi nel progetto di qualcun altro.

Si tratta di una condizione che può anche essere confortevole, e anche piacevole per un po’. E ci sta anche. Dobbiamo però essere coscienti che il pendolo non ha a cuore il nostro interesse personale. Può darsi che i due interessi – quello nostro e quello del pendolo – coincidano per un po’. Ma non dovremmo dare per scontato questo fatto.

Quindi, come possiamo comportarci? In questo senso, posso riferirvi la mia esperienza personale. Da parecchio tempo, ormai, ho sviluppato una tecnica che, posso dirlo con sicurezza, mi ha consentito di cogliere diverse soddisfazioni. Ovvero, fissarmi un obiettivo che sia un po’ impegnativo ma anche fattibile con quel po’ di impegno. In questo modo, in primo luogo mi sentirò motivato, perché percepirò l’obiettivo come fattibile. D’altra parte, non avrò una scusa per non provare quantomeno a raggiungerlo.

Il bello di questo tipo di tecnica è che consente di sviluppare i muscoli proattivi. Ovvero, prendendo piccole decisioni ogni giorno, ci si abitua a prendersi la respons-abilità.