Scuola ovunque

Fonte: Mezzopieno.Org

Secondo un articolo dell’Hindustan Times, di cui ho avuto contezza attraverso la newsletter di Mezzopieno una coppia di pensionati indiani ha attivato una scuola sul marciapiede di una delle strade di New Delhi. E’ un bel commento al motto del mio professore di spagnolo del liceo.

In tempi di lockdown, in India le scuole, in quanto edifici, sono chiuse. Certo, rimane l’alternativa delle lezioni a distanza, ma non tutte le scuole, almeno quelle pubbliche, hanno le risorse per attivarle, e del resto non tutti gli studenti hanno accesso alla Rete, quantomeno quella informatica. Così, Veena e Virendra Gupta hanno improvvisato quella che possiamo a buon diritto chiamare “scuola di strada”, mettendo a disposizione un spazio, le proprie competenze, il materiale didattico e perfino una merenda.

Le lezioni, che si tengono tre giorni a settimana, sono rivolte a bambini e ragazzi dai 4 ai 14 anni, e riguardano materie come matematica, scienze, inglese ed educazione fisica. Adesso, i coniugi stanno cercando volontari che donino il loro tempo e le loro competenze per consentire di espandere questa iniziativa.

A dimostrazione che, quando c’è la volontà, è possibile diffondere ed acquisire conoscenza.

La contropartita per la carità

E’ bello che ci siano enti di vario tipo che aiutano le persone in difficoltà, ma troppo spesso c’è gente che se ne approfitta, non prendendosi alcuna respons-abilità della propria vita, o rinunciando a prendersela. Spesso vedi gente sbattuta sulle panchine nei pressi della sede dell’Ente Assistenziale, lo sguardo vacuo, la barba lunga,una sigaretta dietro l’altra, magari un cartone di vino a portata di mano. Guardandoli, un brivido ti scorre lungo la schiena.

Capisco bene che ci sono momenti in cui la volontà è, come dire, disattivata. La vita può infliggere colpi veramente duri. Il concetto però non cambia. Se rinunciamo alla nostra respons.-abilità, dovremo sempre appoggiarci a qualcosa o qualcuno di esterno. E finiremo per perdere completamente la nostra identità. Andremo, letteralmente, alla deriva, diventando sempre più dipendenti da fattori esterni.

So per certo, d’altronde, che gli Enti Assistenziali spesso hanno dei percorsi per queste persone. Chi vuole, può essere aiutato, prima di tutto, a riprendere in mano nei limiti del possibile le redini della propria vita. Ammesso che lo voglia, certo. Nessuno può essere forzato. Ma quello che non si capisce è perché non dovrebbe volerlo.

Questo è uno studio interessante. Per quale motivo una persona decide che è meglio appoggiarsi agli altri piuttosto che cercare di riprendersi la respons-abilità per la propria vita? Non sarebbe il caso, per usare una metafora, che queste persone decidessero di imparare a pescare, anziché continuare a presentarsi con il cappello in mano per ricevere il pesce?

Esplorare possibili universi…

Ritengo che alla fin fine il nostro lavoro dovrebbe essere quello di esplorare possibili universi. Partiamo da un concetto: l’universo in cui viviamo non è altro che il frutto delle scelte che abbiamo fatto fino a questo momento. Se ci piace, grandioso: non dobbiamo fare altro che godercelo. Nel caso in cui invece, come spesso capita, riteniamo che non sia esattamente il massimo della vita, forse è opportuno metterci una pezza.

Quale può essere questa pezza? Ecco la mia modesta opinione: di solito ragioniamo come se la situazione in cui ci troviamo dovesse continuare identica, sugli stessi binari attuali, “per sempre”, o, per essere più precisi, fino alla fine dei nostri giorni. Ma si tratta semplicemente di una nostra costruzione mentale. Mai come oggi il mondo attorno a noi tende a cambiare molto velocemente. Quindi, mai come oggi esistono delle possibilità che prima non c’erano.

A questo punto, ecco la pezza. Durante la nostra corsa del criceto, prendiamoci di tanto in tanto cinque minuti per considerare la situazione, la nostra opinione circa la possibile evoluzione della situazione e, se questa non ci piace, le possibili evoluzioni alternative, che diventano automaticamente e a tutti gli effetti nuovi universi possibili.

Questo esercizio avrà intanto come primo effetto quello di renderci decisamente più sereni, consentendoci di recuperare energie, sempre più energie, che potremo destinare a scopi costruttivi come, per esempio, capire cosa vogliamo davvero, e a fare leva, cominciare cioè a realizzarlo anche, e direi soprattutto, nella situazione in cui ci troviamo.

Sbloggarsi…

Questa citazione è tratta dal libro di John Gray, Come avere quello che vuoi e volere quello che hai. Si tratta di uno di quei libri che compri, magari rimane su un tavolo per un tempo indefinito, e poi riprendi in mano scoprendo che si tratta di un vero e proprio tesoro. Magari prima o poi ci scriverò sopra una recensione. Adesso però vorrei concentrarmi su questa citazione.

In genere, scrivo quando ho un’idea. Avere un’idea significa che un concetto comincia a bussare con insistenza alle porte della tua mente. E questa è la creatività che viene da dentro, spontanea, ed è un po’ come il Natale, che quando arriva arriva. E’ anche vero però che non sempre si può aspettare l’ispirazione.

Ad esempio, nel mio lavoro di giornalista è necessario “stare nei tempi”. Ovvero: il servizio deve essere montato ad un’ora ben precisa, e deve durare un tot, in genere dal minuto e mezzo ai due minuti. Di conseguenza, la creatività deve essere adeguatamente stimolata, in modo da avere ben chiaro quanto prima il testo, le porzioni di intervista che vuoi inserire, e un”idea delle immagini da utilizzare.

Quindi, ti organizzi e cerchi di accelerare un po’ il processo. Ad esempio, già quando ti viene assegnato il tema del servizio cerchi di farti un’idea della struttura del prodotto finale. Magari abbozzi il testo. Quando sei sul posto, riprese ed interviste sono già mirate. Si mette insomma in moto un processo che stimola molto la creatività. La scadenza impellente aiuta a concentrare le risorse, dando come risultato una produttività che dal di fuori può sembrare quasi prodigiosa.

Ho imparato ad usare un metodo simile anche per gli articoli questo blog. In questo caso non si tratta di lavoro, dal momento che non lo monetizzo. Si tratta in realtà di una sorta di diario, dove annoto degli spunti che poi, se mi sembrano utili anche a qualcun altro, rendo pubblici. Una sorta di palestra che serve principalmente a me per “solidificare” alcuni concetti mettendoli in parole.

Anche qui, però, a un certo punto ho dovuto darmi un minimo di metodo. Infatti, se dovessi aspettare l’ispirazione, l’idea compiuta, il blog rimarrebbe derelitto e abbandonato per periodi anche molto lunghi. Di conseguenza, mi sono posto l’obiettivo di smanacciarlo tutti i giorni. Quando metto solamente un titolo, quando invece scrivo qualche riga. Di tanto in tanto, poi, esprimo l’intenzione di concludere un post.

Naturalmente, non è detto che questa intenzione giunga a compimento. Quello che conta è che io abbia fatto, tanto per cambiare, un passo avanti. Spesso, da queste decisioni scaturiscono risultati interessanti. Per fare questo passo avanti, però, come scrive Gray, occorre non porsi il problema se siamo o meno in grado di scrivere qualcosa che abbia un senso. Questo, come dice il poeta, lo scopriremo solo vivendo.

Una sana Perplessità

Sto pensando sempre più spesso che essere in un costante stato di perplessità sia un’ottima idea. La perplessità ci aiuta a distaccarci un momento dallo status quo, ma non giudica. Non esclude che la situazione attuale sia buona, ma nemmeno che sia pessima. Costringe ad articolare il pensiero, a non seguire sempre le vie più battute, l’opinione media. E alla fine diventa un motore di conoscenza, uno stato d’animo che ci invita, ci incentiva ad allargare i nostri orizzonti.

Perché alla fine è di questo che si tratta. Spesso veniamo letteralmente risucchiati nel tran tran quotidano, una vera e propria corsa del criceto che in un certo qual modo ci spegne il cervello, portandoci a pensare che lo status quo, la situazione in cui viviamo, sia l’unica possibile. Qualche autore arriva a parlare di “prigione vibratoria”, come David Icke, o di “psicopenitenzario”, come Salvatore Brizzi.

A mio parere, si tratta di una metafora molto interessante. Sia Icke che Brizzi, con sfumatoure diverse, sostengono che esistano gruppi interessati a mantenere l’umanità in uno stato semi-.ipnotico o comunque depotenziato allo scopo di controllarla meglio. Senza arrivare a tanto, secondo me è vero che siamo noi stessi a volte a costruirci la nostra celletta.

Per carità, se ci stiamo bene nessun problema. Se invece abbiamo l’impressione che, come dire, ci vada un tantinello stretta, ecco che la perplessità, senza demolire nulla di quello che abbiamo costruito finora e a cui teniamo tanto, può aiutarci a coltivare un distacco sufficiente per vedere la situazione da una prospettiva nuova e auspicabilmente più ampia.