Alberto Chiara e la “meditazione in un minuto”

Grazie alla presentazione del suo volume MediTiAmo alla libreria Briviodue di Aosta ho avuto l’indubbio piacere di scoprire un autore che non conoscevo, Alberto Chiara. Quello che mi è piaciuto in particolare è il suo pragmatismo rispetto al tema della meditazione. Ad esempio, sapevo che per iniziare a meditare bisognava mettersi lì e concentrarsi sul proprio respiro per x minuti. Per non parlare della prescrizione di meditare ogni giorno per tre volte, venti minuti alla volta.

Orbene, subito all’inizio del libro Chiara mette… in chiaro che l’occidentale medio non ha tempo per tutto questo – o, per essere più precisi, non ha la necessaria organizzazione mentale. Di conseguenza, come è accaduto al tempo in cui alcuni guru orientali adattarono – parecchio – la meditazione alla mentalità degli occidentali di allora, eliminando i riferimenti più strettamente religiosi.

Che cosa propone dunque Chiara nel suo testo? Di mettersi seduti, mani sulle ginocchia, occhi chiusi, e decontrarre le varie parti del nostro corpo, una alla volta, iniziando dalla testa per poi passare al collo, alle spalle, e così via fino ad arrivare ai piedi. Il risultato è un sottile benessere che Chiara identifica con Dio. Naturalmente, chi non crede può pensare all’Universo, al Potere Superiore e così via.

Ora, dal momento che spesso le tensioni a livello di pensiero sono precedute da tensioni a livello fisico, ne deriva che imparare a rilasciare le tensioni del corpo può servire a mantenere quieti i pensieri. Il che favorisce la conservazione di energie che possono essere dedicate a faccende più costruttive che non rimuginare su rimpianti e preoccupazioni.

Creatività e Corsa del Criceto

Càpita a volte che sentiamo di aver perso la direzione, il senso della vita. Le giornate si somigliano, ci sentiamo stanchi e a volte vien voglia di mollare tutto, anche se non sappiamo come. E’ quella che possiamo chiamare “La sindrome di Tahiti”: uscire a comprare le sigarette (anche se non abbiamo mai fumato) e scomparire agli occhi dei nostri familiari, per andare magari a Santo Domingo ad aprire il millemillesimo chiringuito.

Naturalmente, non funzionerebbe. Ne abbiamo parlato diverse volte. Certo, all’inizio ci sarebbe l’eccitazione della novità, e per un po’ sarebbe anche bello e positivo. Il piccolo problema è che il noi che siamo in quella situazione è esattamente il noi che è fuggito dalla situazione precedente. Non siamo cambiati, e presto o tardi torneremo a ricreare una situazione simile a quella che abbiamo lasciato correndo via a gambe levate.

Il punto è che, quando ci sentiamo oppressi dalla situazione in cui stiamo vivendo – e che, comunque, abbiamo costruito noi – é nostra respons-abilità cambiare prima di tutto dentro di noi. Dobbiamo tornare ai fondamentali, ai nostri valori. Perché sono i nostri valori ad averci portato dove siamo, e sono sempre loro che ci possono aiutare a capire quale strada possiamo prendere per avere una vita più piena. E’ quella che da un po’ di tempo vado chiamando Revisione della Routine.

Spesso, anzi quasi mai, i cambiamenti necessari sono drastici. Si tratta in buona sostanza di ritrovare il nostro bambino interiore, parlare con lui e ricordare quali erano le nostre aspirazioni quando ancora la nostra funzione d’onda non era collassata, quando cioè le possibilità per noi erano virtualmente infinite. Cosa volevamo diventare? Astronauta, chirurgo di fama mondiale, rockstar, ingegnere pilota che fa i rally (cit. quest’ultima da una nota pubblicità degli anni ’80 del secolo ventesimo).

Direte voi: ma ormai quelle cose sono diventate impossibili. Ho moglie, figli, o comunque anche se non li avessi la vita con le sue necessità mi attanaglia tutto il giorno, tutti i giorni, e qualche volta anche la notte, anzi quasi sempre anche la notte. Come faccio a mollare tutto e fare quello che mi sento di fare?

Il punto è che quanto sopra è essenzialmente una nostra convinzione. Ce la siamo ripetuta tante di quelle volte che abbiamo finito per credere che sia l’unica verità possibile. Noi non contiamo nulla, dobbiamo soltanto produrre, consumare e crepare.

Ebbene, non è esattamente così. Certo, se decidiamo di essere autonomi o di formarci una famiglia è chiaro che qualche responsabilità dobbiamo prendercela. Ma è da presumere che se abbiamo fatto una scelta di questo tipo è stato con consapevolezza, sulla base dei nostri valori. O no?

Che sia così o meno, il primo passo è uscire dal pensiero unico in cui – è bene precisare – ci siamo infilati da soli. occorre prendere coscienza del fatto che le possibilità sono infinite, e che una volta ritrovato il nostro bambino interiore e ricordato cosa cercava, possiamo ogni giorno, anche nella Corsa del Criceto, fare leva, ovvero il primo piccolo passo nella direzione dei nostri sogni.

La Nuvola bianca, la Nuvola nera…

L’ammucchiata dei problemi a volte si fa così spessa e intricata che possiamo immaginarla come un nuvolone, un enorme cirronembo nero nero che occupa il cielo della nostra mente.

Le nostre energie, in presenza della Nuvola Nera, vengono dissipate da pre-occupazioni, totalmente inutili in quanto non ci si può pre-occupare di qualcosa, ma solo occuparsene. Come diceva Qualcuno: se c’è soluzione, perché ti preoccupi? Se non c’è soluzione, perché ti preoccupi?

La Nuvola Bianca ha un carattere completamente diverso. Tanto per cominciare, essendo appunto bianca, è luminosa, irradia luce. Questo stesso fatto tende a spazzare via molte vibrazioni della Nuvola Nera. Magari non tutte, ma una parte sufficiente a far sì che il nostro spirito recuperi abbastanza energie da ripartire.

“D’accordo – ci diciamo – i problemi sono tanti, ma possiamo scegliere quelli più semplici e cominciare a gestirli. E poi dividere i problemi complessi in problemi semplici. Un passo alla volta, possiamo farcela.

Con cosa sei connesso?

E’ importante domandarsi spesso a che cosa siamo connessi, ovvero a cosa stiamo pensando. La legge d’attrazione dice infatti che più pensiamo a qualcosa, più questa cosa tende a materializzarsi nella nostra vita.

Se questo concetto è valido, ne deriva che è meglio connettersi a oggetti e situazioni che ci potenziano, ovvero pensare a qualcosa di costruttivo o anche solo di bello. Insomma, poiché a quanto sembra non possiamo fare a meno di pensare, meglio pensare bene, connettendoci con qualcosa che migliora la nostra vibrazione.

Non è un concetto banale. Per motivi che d’abitudine tralasciamo di analizzare, ci troviamo spesso a ‘pensare male’, ovvero a connetterci con oggetti che ci limitano, ci depotenziano. Anche qui, si tratta di rivedere la nostra routine. Prendere la decisione di osservare e cambiare consapevolmente la direzione dei nostri pensieri. E poi iniziare ad allenarsi in questo senso.

(Non) affrontare la morte

Vi ho avvisato fin dal titolo. In questo post tratterò quello che probabilmente è l’argomento più scabroso per noi, che apparteniamo a una cultura – ammettiamolo – vitalista e materialista, che considera “questa” vita come l'”unica” vita. Secondo altre culture non è così. Alcune sostengono che “dopo” ci sia una vita eterna. Altre che ci siano infinite vite a disposizione, sia in un corpo fisico che fuori.

Personalmente, non vi so dire come funziona. Nessuno può, anche perché pare che finché siamo nella “tuta-corpo” abbiamo presente solamente la vita attuale, e delle eventuali altre non ci ricordiamo nulla. Per cui all’atto pratico viviamo una vita per volta. Ciò non toglie che – anche stando così le cose – possiamo fare qualche considerazione basata esclusivamente sul mondo cosiddetto materiale.

Per esempio: come diceva Epicuro, non bisogna aver paura della morte, perché quando ci siamo noi, non c’è lei, e quando c’è lei, non ci siamo noi. E’ così semplice, davvero. C’è anche un’altra riflessione in merito che mi ronza nella testa da un po’ di annetti. Come possiamo sapere per certo che stiamo per morire? Anche qui, la risposta è abbastanza immediata: non possiamo saperlo.

Anche se in un dato momento stiamo malissimo, e magari il medico ci ha consigliato di verificare che il nostro testamento sia a posto, non possiamo essere certi di essere sul punto di morire. Anche perchè, molto banalmente, finché non siamo morti, siamo vivi, e dunque tutto può ancora accadere.

Distacco. Destrutturazione. Ricombinazione.

Di tanto in tanto conviene riprendere in esame la nostra situazione attuale, specialmente se ci sentiamo intrappolati in essa, e non ci vediamo più quel granché di evolutivo. Secondo la mia esperienza questo procedimento può essere svolto in tre fasi, che ho pensato di chiamare Distacco, Destrutturazione e Ricombinazione.

Il Distacco avviene quando non ci identifichiamo più con la situazione. Di solito infatti tendiamo a vivere con il pilota automatico, seguendo una serie di abitudini. Intendiamoci, le abitudini possono essere uno strumento prezioso, quando di aiutano a raggiungere i nostri obiettivi. Diversamente, possono diventare un vero e proprio incubo, quando si annodano e ci incatenano a una situazione che per noi non è evolutiva o addirittura si rivela deleteria. Occorre allora porsi quelle che da tempo ho preso a chiamare le due domande fondamentali, ovvero: 1. Che cosa sto facendo? 2. Perché lo sto facendo?

Cominciamo così a prendere le distanze dalla situazione. In un certo qual modo è come se ci risvegliassimo dal sonno. Alcuni autori, tra cui Salvatore Brizzi, lo chiamano “creare il Testimone”, e secondo me è una definizione davvero azzeccata, perché da quel momento diventiamo testimoni di quello che ci sta accadendo, e possiamo darne una valutazione più oggettiva. Continuiamo quindi a vivere come sempre, ma cominciando ad osservare con una punta di distacco quello che succede.

Una nota a margine per questa fase: non sempre dovremo cambiare qualcosa. Si tratta di una revisione, non necessariamente di una rivoluzione. Molti non affrontano questa fase perché pensano che li porterà, un bel giorno, a uscire a comprare le sigarette per poi trasferirsi a Tahiti.

A parte il fatto che un gesto del genere, se non siamo cambiati noi, ci porterà a replicare a Tahiti la stessa situazione da cui siamo fuggiti, può benissimo essere che basti cambiare aspetti anche piccolissimi per rimettere tutto in equilibrio. A volte, basta crearsi un hobby che ci dà soddisfazione, oppure mettere il nostro lavoro in una prospettiva diversa, più interessante ed amorevole.

Passiamo alla seconda fase, quella della Destrutturazione. Si tratta, in linea di principio, di comprendere che ogni problema, anche quello più complesso, quello che minaccia continuamente di sopraffarci. può essere suddiviso in problemi più piccoli, sempre più piccoli, fino a trovare un problema che non è più un problema, perché possiamo gestirlo immediatamente o quasi.

Una volta individuato questo piccolo tassello che possiamo gestire agevolmente – e dopo averlo gestito – ecco che ci sentiamo molto più padroni della situazione. Sono soddisfazioni impagabili che rafforzano di parecchio la nostra autostima.

Siamo così arrivati all’ultima delle tre fasi, quella della Ricombinazione. Una volta che abbiamo suddiviso il problema in elementi gestibili, possiamo prendere in considerazione altri elementi che finora erano rimasti fuori. Allargando la nostra mente e la nostra visuale, ricercando nuovi tasselli, è infatti possibile mettere insieme nuove opinioni sul problema che stiamo affrontando. “Là fuori”, infatti, c’è spesso molto di più di ciò che siamo abituati a tener presente.

Dalla Ricombinazione parte un nuovo ciclo, che può rappresentare un volano non indifferente per la nostra crescita, sia dal punto di vista materiale che da quello spirituale. Che poi, a ben vedere, vanno frequentemente di pari passo.

RESILIENZA: spogliarsi del dolore

Il dolore è il messaggio che il corpo (o la mente) ci manda per farci capire che qualcosa non funziona. Una volta che abbiamo capito che cosa non funziona, i casi sono due: o possiamo farci qualcosa, o non possiamo farci nulla. In entrambi i casi, continuare a farci influenzare e/o limitare dal dolore è abbastanza sciocco, perché consuma energie che possono (e devono) essere usate in modi migliori.

Qualcuno dei miei ventiquattro lettori potrà dire a questo punto: ahò, ma che stai a di’? Io voglio che la mia vita sia perfetta. Vale a dire: voglio essere pieno di soldi, sesso, salute. Sempre. Tutto deve andare sempre bene. Cioè, come dico io. Se no la vita non ha senso, e il mondo è un pessimo posto, una vera e propria valle di lacrime.

Il punto è che semplicemente non funziona così. L’Universo non ci consente di dormire sugli allori, quantomeno non troppo a lungo. Giusto godersi i risultati, assaporarli per un po’, per così dire. Poi, però, siamo fatti in modo tale che la nostra anima reclama nuovi obiettivi.

Naturalmente, come dicono gli americani, “no pain, no gain”. Ovvero, se rimaniamo nella nostra zona di comfort, e non ci prendiamo qualche rischio più o meno calcolato, sarà ben difficile che otteniamo qualcosa di significativo. Il rischio più o meno calcolato può comunque portare a delle conseguenze “negative” (cioè, è sempre bene ricordare, che non ci piacciono). Queste conseguenze “negative” portano dolore.

Ne consegue che, se vogliamo crescere e svilupparci, dobbiamo imparare a gestire le varie forme del dolore. Conoscendolo, impareremo a fare in modo che il suo impatto sulla qualità della nostra vita e dei nostri pensieri sia il minore possibile. Una volta che lo stiamo provando, dobbiamo cominciare, letteralmente, a “spogliarcene”, ad allontanarlo esattamente come se ci togliessimo un abito.

In questo modo, diventeremo sempre più abili sia a gestire il dolore nelle sue varie forme che ad uscire a comando dalla nostra zona di comfort. Il che farà sì che diventeremo sempre più forti, e ci godremo maggiormente la vita quando va “bene” (cioè, non scordiamocelo mai, come vogliamo noi)

Un passo avanti con la salute

Anche nel campo della salute vale il concetto che abbiamo sviluppato finora, vale a dire quello della respons-abilità. Non c’è dubbio che la scienza sia molto progredita, che abbia raggiunto delle vette assai notevoli. E’ anche vero però che molta strada rimane ancora da percorrere. Nonostante gli encomiabili sforzi degli scienziati, molte cose rimangono oscure, a partire, appunto, dalla materia oscura. Non c’è quindi da stupirsi se anche quando si parla di salute parecchio sia stato fatto, ma assai di più rimanga da fare.

Direte voi, ma allora non devo più fidarmi del mio medico curante? Certo che sì. Soltanto che a mio parere bisogna smetterla di vederlo come un depositario della Verità, e piuttosto come un consulente. Una persona che sicuramente ne sa più di voi nel campo della salute, e che ha il compito di darvi informazioni comprensibili su come state e, nel caso, su come potete stare meglio. Niente di più, niente di meno.

Ricordiamoci quello che dicevamo all’inizio: noi siamo respons-abili. Dobbiamo ascoltare tutti, senza per questo metterci nelle mani di nessuno. Quelle che escono dalla bocca del medico sono opinioni. Qualificatissime, senza dubbio. Da prendere nella massima considerazione. Ma cionondimeno rimangono delle opinioni, e non dei dogmi, degli ordini superiori a cui obbedire senza discutere.

A maggior ragione, evitiamo di confondere delle diagnosi con delle sentenze. Quando vi viene detto che avete la coglionite aggravata, per esempio, e che vi restano, tipo, sei mesi di vita, si tratta semplicemente di una conclusione tratta dai vostri sintomi, dagli esami clinici e da statistiche, non di un diktat che determina la durata della vostra vita residua.

Il primo motivo per cui vi dico questo è che ognuno di noi è un caso a sé stante. Le statistiche, come diceva il poeta, sono quella cosa per cui se io mangio un pollo e voi ne mangiate due, abbiamo mangiato un pollo per uno. Fanno una media, magari descrivono anche una tendenza, ma nel modo più assoluto non sono in grado di prevedere il futuro, tanto più per un singolo individuo.

Quindi, il mio invito è quello di prendere prescrizioni e diagnosi con beneficio di inventario, senza spaventarsi. Ho visto troppa gente andare nel panico dopo una diagnosi di, apro virgolette, “malattia terminale”, chiudo virgolette.

Secondo me, si tratta di una diagnosi imprecisa. Bisognerebbe forse piuttosto dire “malattia statisticamente terminale”. Non possiamo sapere come risponderà il nostro corpo, sia da solo che ai farmaci. Non possiamo sapere quale soluzione potrebbe portarci domani mattina la tecnologia medica, o la semplice forza vitale di ciascuno di noi.

Quindi, come comportarsi? Semplice: dobbiamo essere respons-abili. A mio parere, uno dei passi fondamentali da fare è conoscere come funziona il nostro corpo. Un bravo medico non prescrive solo medicinali, ma da anche delucidazioni su come si è creato il problema che ha portato alla prescrizione del farmaco, e su come eventualmente possiamo comportarci perché, magari, un giorno il farmaco non sia più necessario.

Già: perché mi fanno morire (è il caso di dirlo) i medici che affermano: questo farmaco lo dovrai prendere a vita. E’ una delle barzellette più divertenti che abbia mai sentito. Hai la sfera di cristallo, o leggi i fondi del caffè, che sai per certo che per tutta la vita dovrò assumere quel farmaco? E se domani mattina qualcuno inventa una cura definitiva? O se invece viene scoperto un metodo per guarire senza farmaci?

Lasciamo poi stare il fatto che i farmaci, eventualmente, dovrebbero curare la causa della malattia e non i sintomi. O per meglio dire, bene alleviare i sintomi, ma poi occorre andare alla radice della malattia, alla sua causa. E prima ancora, occorre sviluppare dei metodi per conservare la salute.

Anche qui, bisogna sapere come funziona il nostro corpo. Costa fatica? Senza dubbio. E’ una faccenda che rientra nella respons-abilità. Bisogna informarsi. Rubare un po’ di tempo al divano, e interessarsi all’approfondimento di come siamo fatti. Ascoltare il nostro corpo. Rendersi conto del perché ci manda certi segnali. Si tratta di un’abitudine, e come tutte le abitudini si acquisisce.

Gestire il lutto, la malattia e la morte

Occorre essere respons-abili anche, direi soprattutto, nella gestione delle cose che non ci piacciono. Se c’è una cosa che non ci piace è la morte, specialmente preceduta dalla malattia. La nostra civiltà, quella occidentale intendo, schifa la morte e la malattia, perché si presume che dobbiamo sempre essere vincenti, performanti, al top. E ovviamente la malattia e la morte sono la negazione di tutto questo.

Nondimeno esistono, e occorre essere respons-abili anche nei loro confronti. Anche per queste circostanze, occorre decidere come comportarsi, perché prendere decisioni fa risparmiare energia, che altrimenti viene dispersa quando si tentenna da un’ipotesi di comportamento all’altra.

Dal momento che la malattie e la morte sono due cose che non ci piacciono, e che anzi ci suscitano terrore, occorre innanzitutto conoscerle meglio. L’unica via d’uscita dalla paura è infatti la conoscenza. Come possiamo fare in modo che anche queste due cose così schifose diventino gestibili?

Qui ognuno ha la sua risposta, e come sempre in questo blog vi do la mia, personalissima. Per gestire in qualche modo il lutto, la malattia e la morte occorre considerarle esattamente come le altre esperienze di noi esseri umani. ovvero delle esplorazioni. Non sappiamo come evolverà la malattia, nostra o di altri. Come funziona? Di cosa è fatta? Cosa possiamo fare noi per aiutare i medici a curarci, e i nostri cari ad avere meno paura insieme a noi? A mio parere, sono queste le domande che dobbiamo farci.

E la morte? Cosa ne sappiamo di quello che viene dopo? La disperazione che proviamo in molti deriva dalla convinzione che dopo non ci sia nulla. O meglio, che ci sia il nulla. Chi muore non c’è più, e non potremo mai relazionarci di nuovo con lui. Ma bisogna convenire che si tratta di un’opinione, che deriva dal fatto che non possiamo vedere e toccare dei corpi.

In effetti noi non sappiamo come siamo fatti davvero. Secondo alcune teorie, l’essere umano è molto più di un corpo. E’ possibile che qualcosa di noi, chiamiamola come vogliamo, sopravviva quando il corpo “muore”.

Anche se così non fosse, mi pare che la nostra vita cambi molto in meglio se decidiamo di adottare questa credenza, che è una credenza esattamente come pensare che dopo la morte non ci sia nulla. Con la differenza che adottando il convincimento che l’esistenza continui dopo che il corpo fisico cessi di funzionare, siamo in grado di aiutare noi stessi e gli altri a vivere con un livello di energia decisamente più costruttivo.

L’unica malattia veramente mortale

cerottoQuando capita di avere un congiunto in ospedale si ha l’occasione di riflettere sulla relativa fragilità del nostro corpo. E si imparano moltissime cose.

In ospedale ci si sente sradicati dal proprio ambiente. E questo al di là dell’encomiabile impegno del personale sanitario, che ho avuto modo di riscontrare in più occasioni.

So bene che l‘argomento malattia e morte nella nostra società è un vero e proprio tabù. Ma d’altra parte sono situazioni che fanno parte della nostra condizione umana. Ritengo pertanto che sia meglio conoscerle e gestirle che ignorarle, e lasciare che ci disturbino dal fondo del nostro subconscio, manifestandosi di quando in quando con le simpaticissime crisi di panico, ovvero di paura non si sa di che.

Del resto, abbiamo un corpo, e il corpo si può ammalare. Il lato positivo è che possiamo imparare a conoscerne il funzionamento, e quindi capire come trattarlo meglio.

Questo anche quando, per una serie di circostanze, ci troviamo alle prese con una malattia, ovvero un malfunzionamento di qualche organo del nostro corpo. Anzi, spesso succede che proprio quando ci si ammala si ha l’occasione di imparare qualcosa.

Prendiamo l’infarto. Perfino la parola mette paura. Eppure, quante volte ho sentito di persone che, proprio dopo questo evento ritenuto così spaventoso, hanno imparato a rispettare il proprio corpo, migliorando il loro stile di vita  e quindi, diventando tecnicamente più sani di prima.

Che dire di un tumore? Altra parola terrificante, che suona come una condanna. Tuttavia, anche qui di altro non si tratta che di un malfunzionamento del nostro corpo, che in molti casi può essere gestito piuttosto bene, garantendo a chi si ammala un’aspettativa di vita pari a quella di una persona perfettamente sana.

L’unica malattia veramente mortale è arrendersi, ovvero rinunciare a gestire le nostre emozioni, lasciarsi travolgere dal caos. Tutto il resto è fuffa.