Dissolvere il malumore

Uno dei modi di uscire dalla disperazione e dal “disaggio periferigo” è dissolvere il malumore. Ovvero, quella sottile – o non tanto sottile – sensazione di risentimento di quello che siamo abituati a chiamare “il mondo”.

Togliamo subito un blocco alla dissoluzione del malumore: la tendenza al perfezionismo, caratteristico della nostra epoca. Cerchiamo degli interruttori, delle pillole. Qualcosa che funzioni immediatamente e in modo completo e definitivo. Insomma, tutto e subito.

Il punto è che raramente o mai le cose funzionano in questo modo. Ogni cambiamento presuppone un percorso, graduale. Se voglio farmi i bicipiti in palestra, non mi verranno dall’oggi al domani. Saranno necessari tempo, costanza e pazienza. Una merce rara oggigiorno, ma proprio per questo estremamente preziosa.

Quindi, dovremo far conto di esercitarci in palestra. Di tanto in tanto, impegniamoci a pensare che fondamentalmente “il mondo” non esiste O, per essere più precisi, è una costruzione nostra, interna, fatta di opinioni basate certamente su esperienze, ma che nonostante tutto, proprio in quanto opinioni, potrebbero essere sbagliate.

E se sono sbagliate le opinioni, altrettanto sbagliato è il malumore, il risentimento che coviamo contro “il mondo”. Entità che, come abbiamo visto, non ha una sua consistenza reale. Oltretutto, il malumore tende a consumare le nostre energie, che invece potremmo usare per pensieri (e di conseguenza azioni) di carattere molto più costruttivo.

Quindi – che so – mettiamo una sveglia sul cellulare, e quando suona, riflettiamo brevemente su quanto abbiamo detto sopra. Dissolviamo un po’ di malumore, e lasciamo che un tot di energia venga indirizzato verso l’uscita dallo stato di impotenza. Col tempo, vedremo lo sviluppo di un effetto cumulativo che ci spalancherà nuovi, stimolanti orizzonti.

I

La qualità del momento presente

Non possiamo sapere come andranno le cose, e questo rende praticamente l’ansia inutile, anzi insulsa. Tutto quello che possiamo fare è aumentare la qualità del momento presente, concentrandoci su ciò che funziona, e che in quanto tale è vero.

Naturalmente, questo comporta un certo sforzo, perché la cosiddetta realtà – per motivi che qui non interessa approfondire – sembra essere strutturata per crearci momenti che qualitativamente vanno dal deludente al pessimo.

È bene sottolineare da subito che si tratta di un’opinione e non della verità. Lo conferma il fatto che questa convinzione non funziona, non è vitale, e dunque è falsa. Certo, è molto comoda perché ci autorizza ad essere ir-respons-abili, cioè a rinunciare a tenere il volante della nostra vita.

Altro aspetto interessante è che la cosiddetta realtà non fa altro che rappresentare ciò che è accaduto fino a quel momento. Il Passato, niente di più. Questo significa che il Presente e – soprattutto – il Futuro sono nelle nostre mani, almeno in parte.

Dico “in parte” perché naturalmente non possiamo né controllare ogni aspetto del presente né sapere per certo cosa succederà in futuro. Chi mi segue da un po’ ormai avrà capito dove voglio andare a parare: la nostra Respons-abilità fa la differenza.

In qualsiasi momento ci troviamo a vivere, specialmente se sentiamo che non è particolarmente vitale, sta a noi concentrarci su ciò che funziona, guardarci dentro, capire chi siamo davvero, cioè esseri spirituali, la cui ragion d’essere non è il benessere materiale – non solo – ma l’evoluzione e la conoscenza.

E tutto parte dall’unico tempo che davvero esiste, ovvero il presente, che deve essere della migliore qualità possibile affinché le nostre energie vengano dirette alla crescita, all’evoluzione etica.

Uscire dalla disperazione

La disperazione è quello stato in cui è assente la speranza. O, per essere più precisi, la speranza non viene percepita. La soluzione al nostro problema è certamente “là fuori”, ma la nostra mente si è come ristretta, e non siamo in grado di prenderla in considerazione.

Non è una condizione piacevole, e soprattutto non ce la meritiamo. Mai, a prescindere da quanti errori possiamo aver fatto. Perché alla fine non importa dove siamo: quello è il passato. Importa, tantissimo, il futuro, ovvero dove stiamo andando.

Quando ci rendiamo conto di questo, già qualcosa cambia. Comprendiamo che è possibile cambiare le cose un passo alla volta, con fiducia, comprendendo che gli eventuali errori non sono condanne, a patto di imparare le lezioni che ci portano.

Quando adottiamo questo atteggiamento, spesso ci stupiamo di come la soluzione del nostro problema era proprio li, a pochi centimetri dal nostro naso. “Ma allora – ci viene da pensare – chi me lo fa fare di disperarmi?”

Precisamente. Per quanto “disperata” sia la nostra situazione (e spuntano le virgolette) possiamo sempre tornare ai dati, e quindi osservare, capire e agire, mettendo in campo la creatività necessaria per trovare stimoli sempre nuovi.

Azioni ispirate

Sto scoprendo che prima di ogni azione è assai produttivo verificare il nostro stato d’animo. Non si tratta di mettersi seduti nella posizione del loto e fregarsene di quello che ci capita attorno. Al contrario, ci impegniamo a sentirci meglio possibile in modo che quando agiamo, la nostra azione sia il più possibile proficua per noi e per gli altri. Insomma, sia un’azione ispirata.

Che cosa proviamo quando stiamo per compiere un’azione? Di quale tipo è la motivazione che ci spinge? Stiamo per fare quella cosa perché sentiamo che si tratta di un passo avanti sulla via della nostra crescita, oppure siamo spinti da qualcosa o qualcuno che potrebbe non avere a cuore i nostri migliori interessi, o semplicemente non sa quali siano?

Questo tipo di procedimento riguarda qualsiasi tipo di azione. Anche perché penso che dovremmo fare dell’azione ispirata una vera e propria abitudine. Da quello che mangiamo al rapporto con il nostro partner. Quando stiamo per metterci a tavola, potremmo chiederci se quello che mangiamo ci aiuta oppure al contrario ci toglie energia. Allo stesso modo, potremmo domandarci quale effetto hanno su di noi i rapporti che intratteniamo con gli altri.

Chi sta pensando?

Mario Robecchi, Dal 2020 al 2025: Saggezza per vivere

Ci sono pensieri che in realtà non sono nostri. Vengono da fuori. Sono frattaglie che abbiamo raccolto un po’ dovunque. Dalla televisione, dalla radio, ascoltando conversazioni per strada… Concetti che tendenzialmente non ci appartengono, ma che si aprono la strada nel nostro subconscio per poi riaffiorare in modo che li crediamo nostri.

Va tutto benissimo, finché i pensieri che abbiamo sono etici, cioè vitali. Quando insomma ci aiutano nel raggiungimento dei nostri scopi e/o ci rendono felici. Ma che dire quando invece ci creano degli ostacoli, quando rendono la nostra vita stressante, cupa, piena di ossessioni? Forse è il caso di attivare un po’ di Revisione della Routine.

Quando, infatti, le situazioni ci appaiono oppressive e/o ingarbugliate, può essere utile fare uno sforzo per staccarsene, e cercare di capire quanto siano utili e vitali i pensieri che ci passano per la testa.

Dobbiamo in definitiva chiederci il più spesso possibile chi sta pensando. Noi, o qualcun altro?

Alberto Chiara e la “meditazione in un minuto”

Grazie alla presentazione del suo volume MediTiAmo alla libreria Briviodue di Aosta ho avuto l’indubbio piacere di scoprire un autore che non conoscevo, Alberto Chiara. Quello che mi è piaciuto in particolare è il suo pragmatismo rispetto al tema della meditazione. Ad esempio, sapevo che per iniziare a meditare bisognava mettersi lì e concentrarsi sul proprio respiro per x minuti. Per non parlare della prescrizione di meditare ogni giorno per tre volte, venti minuti alla volta.

Orbene, subito all’inizio del libro Chiara mette… in chiaro che l’occidentale medio non ha tempo per tutto questo – o, per essere più precisi, non ha la necessaria organizzazione mentale. Di conseguenza, come è accaduto al tempo in cui alcuni guru orientali adattarono – parecchio – la meditazione alla mentalità degli occidentali di allora, eliminando i riferimenti più strettamente religiosi.

Che cosa propone dunque Chiara nel suo testo? Di mettersi seduti, mani sulle ginocchia, occhi chiusi, e decontrarre le varie parti del nostro corpo, una alla volta, iniziando dalla testa per poi passare al collo, alle spalle, e così via fino ad arrivare ai piedi. Il risultato è un sottile benessere che Chiara identifica con Dio. Naturalmente, chi non crede può pensare all’Universo, al Potere Superiore e così via.

Ora, dal momento che spesso le tensioni a livello di pensiero sono precedute da tensioni a livello fisico, ne deriva che imparare a rilasciare le tensioni del corpo può servire a mantenere quieti i pensieri. Il che favorisce la conservazione di energie che possono essere dedicate a faccende più costruttive che non rimuginare su rimpianti e preoccupazioni.

Le foglie nuove

Contemplerò/le foglie nuove (io)

Le esperienze passate a volte sono lezioni utili che ci portano, a volte degli ingombri inutili che ci rallentano. In quest’ultimo caso bisogna imparare dalle piante. Finché sono in vita, sfornano continuamente nuove foglie per sostituire quelle vecchie, che inevitabilmente finiscono per seccarsi.

Allora vi propongo questa piccola meditazione che sto portando avanti proprio da stanotte. Quando la mente-scimmia è ai massimi livelli, e cerca di trascinarmi in uno stato para-allucinatorio assolutamente privo di senso per la mia crescita personale, sposto subito il mio focus, la mia attenzione, e mi concentro su uno scenario completamente diverso.

Prima di tutto, cerco di evocare dentro di me un gradevole odore di menta. Anzi, per essere precisi di mentuccia. Natural-menta (:-)) questo è l’odore più gradevole per me. Magari per voi può essere, che ne so, la nepitella o il mandarino.

L’importante è che si tratti di una pianta. Penso che sia perché connetterci con una pianta, cioè pensare ad essa, ci riporta in un certo qual modo allo stato di natura, tirandoci fuori almeno per un momento dalla ruota del criceto, dalla corsa quotidiana.

Fatto questo – cioè, richiamato il profumo della pianta preferita – è facile pensare a come le piante funzionano. Qualunque cosa succeda, sono sempre in crescita. Se una lumaca mangia una loro foglia, o se un’altra foglia non è esposta bene e si secca, il loro scopo è tirarne fuori altre, sempre nuove, per tutta la vita, per crescere senza limiti.

Così anche noi, in special modo quando ci sentiamo bloccati, possiamo pensare al fatto che in natura ogni pianta tende a sviluppare sempre foglie nuove. Possiamo cioè aver fiducia che qualcosa di nuovo si sta costantemente sviluppando. Che le cose cambiano continuamente, e possono cambiare a nostro vantaggio. Anche, e soprattutto, quando pensiamo che non sia più possibile.

? – Il potere del punto interrogativo

Quando una convinzione è depotenziante, non etica, non vitale, può essere utile metterci dietro un punto interrogativo.

Per quanto mi riguarda, ultimamente mi trovo spesso davanti alla convinzione “non sono capace”. Si tratta di una delle convinzioni più deleterie in assoluto, in quanto ci impedisce di fare nuove esperienze, e di conseguenza di crescere come persone.

Occorre quindi mettere un bel punto di domanda. In questo modo il pensiero diventa “Sono incapace? Davvero?

Il solo fatto di mettere in dubbio questa idea ci porta già ad un altro livello di pensiero. Si attivano risorse che neanche sapevamo di avere. È esaltante rendersi conto di quanti problemi apparentemente insoluti si sbriciolano, letteralmente, quando mettiamo in campo questo segnetto piccolo ma potentissimo che è il punto interrogativo.

Contemplare la devastazione… e cominciare la ricostruzione

Ci sono momenti in cui, nonostante tutta la motivazione di questo mondo e di quell’altro, ci sentiamo devastati. Se dovessimo creare un’immagine visiva della nostra situazione, probabilmente ne verrebbe fuori quella di macerie dopo un terremoto o un bombardamento. E proprio questa immagine potrebbe costituire il primo passo per uscire dalla devastazione.

Già perché prima o poi il terremoto passa e la guerra finisce. I sopravvissuti hanno due scelte: soccombere al trauma o iniziare la ricostruzione.

Naturalmente, il mondo non è più quello di prima. Occorre valutare il nuovo scenario. Cosa non facile, perché l’abitudine ci porta in automatico a ricordare lo scenario vecchio, e a comportarci come se esistesse ancora. L’uomo dopotutto è – anche – un animale abitudinario. Squadra che vince non si cambia, e via discorrendo. Ed è giusto anche conservare un po’ le energia andando in automatico.

Ci sono però situazioni, come questa, in cui siamo chiamati, per così dire, a uscire dal seminato. La Devastazione, fisica o interiore che sia, è uno di questi momenti topici. Il nuovo scenario, per quanto sgradevole sia, ci invita, una volta elaborato il dolore, ad imparare e ad evolvere.