Come ho vinto la timidezza

Quelle che seguono sono alcune riflessioni con le quali ho commentato un post sul gruppo Facebook di Efficacemente.com. Un membro aveva chiesto consigli su come superare la timidezza. Ed ecco ciò che mi sono sentito di scrivere in proposito.

Prima di tutto, ho dovuto capire il significato del termine timidezza. Secondo Wikipedia si tratta di “un tratto della personalità che caratterizza in varia misura il comportamento di un individuo improntato a esitazione, ritrosia, impaccio e pudore superiori a quanto manifestano in analoga situazione altri soggetti, ovvero a una minor socievolezza“.

Ahaaaaa! Tanto per cominciare, quindi, non si tratta solamente di me. Si tratta di qualcosa che coinvolge in generale le relazioni con le persone, la cosiddetta socievolezza. Il che finisce per tirare in ballo un concetto che ritengo fondamentale nelle relazioni, non solo umane, ovvero quello di risonanza. E qui veniamo alla mia personalissima esperienza.

Quando ero ragazzo, si parla degli anni 80 del secolo ventesimo, la socialità era sostanzialmente la discoteca. Ora, io ho sempre odiato la discoteca. Si tratta di una vera e propria repulsione per un mondo dove in teoria si sarebbe dovuto socializzare (=”conoscere le fighe”), mentre invece a me è sempre parso si trattasse di un ambiente dove si faceva di tutto per separare le persone e rinchiuderle in un mondo tutto loro, con luci accecanti rumori che ti assordano alcolici e droghe che ti mandano fuori di melone. Insomma, se la socialità scorre attraverso il dialogo, trovavo la che la discoteca era il posto meno indicato per socializzare.

Per questo andare in discoteca con il mio gruppo di ragazzi equivaleva nella mia esperienza ad un turno alla catena di montaggio. Aggiungiamo che il tipo di persone che si poteva incontrare in quel posto proprio non mi interessava. In particolare, le ragazze erano mediamente delle fotocopie di Madonna, convinte, scusate l’espressione, di avercela dorata o di avercela solo loro. Certo, parliamo di un range di età tra i sedici e i diciotto, per cui ci poteva stare. Ma rimaneva il fatto che proprio non mi coinvolgeva per nulla aver a che fare, perdonatemi, con delle sciacquette.

Il ballo? Anche quello lo trovavo palloso. Senza contare che la gente in pista mediamente era tutta tesa ad esibirsi, cosa per la quale com’è noto serve un sacco di spazio, che veniva ricavato a forza di spintoni nei confronti di gente tipo me che invece magari voleva solo ballare. Alla fine ti rompevi di essere spintonato e uscivi dalla pista. Senza contare che il mio fisico un tantino corpulento, ancora oggi ma all’epoca ancora di più, non mi faceva danzare esattamente come Nurejev. Per cui, sistematicamente o quasi, arrivava qualcuno che ti motteggiava, chiedendoti se eri stato a scuola di ballo. Anche qui, alla fine ti rompevi e uscivi dalla pista.

Il risultato di tutto quanto sopra era che passavo le nottate a dormire sui divanetti. Con effetti anche curiosi. Spesso capitava che qualche ragazza, colpita evidentemente dal mio essere un po’ diverso dagli altri, mi si avvicinava, e magari si riusciva a dialogare per qualche minuto. A volte ho perfino ballato con qualcuna. Nella quasi totalità dei casi, comunque, la cosa finiva lì, perché in definitiva non risuonavamo l’uno con l’altra. Un modo per dire che i nostri mondi erano talmente diversi che non c’era possibilità di andare oltre un dimenarsi insieme sulla pista per qualche decina di minuti.

Nel corso del tempo gli aspetti di cui ho detto sopra, e anche considerazioni economiche mi portarono ad abbandonare l’idea di andare in discoteca. Si trattava tra l’altro di sborsare una cifra sostanziosa per entrare in un posto del quale in definitiva non me ne poteva importare di meno. Senza considerare che i soldi me li dava babbo, il quale faceva due lavori per campare la famiglia.

Quindi, dopo attenta riflessione, decisi che era molto meglio passare il sabato sera in casa a leggere, e la domenica pomeriggio magari uscire con gli altri per andare in giro da qualche parte – questo in estate, perché in inverno anche il pomeriggio della domenica era discotecaro. In questo caso, andavo in radio a mettermi dei dischi, in compagnia di una bibita, e dei miei sogni e delle mie divagazioni.

Col tempo, persi di vista anche gli amici, e si potrebbe pensare che quindi rimanessi solo. Tuttavia, guardando indietro a quasi quarant’anni di distanza, mi rendo conto che quell’apparente chiusura nei confronti del mondo non mi ha impedito di essere felice -anzi, per la verità lo sono stato moltissimo, perché ho potuto fare quello che volevo, e che ritenevo giusto per me.

Quanto alla timidezza, ho concluso che non esiste. Semplicemente, quando abbiamo difficoltà nel rapportarci con qualcuno, è perché non risuona con noi. Il nostro spirito, che sa di cosa abbiamo veramente bisogno, rifiuta la relazione con tipi di persone che non hanno niente a che vedere con noi. Non che siano peggiori – intendiamoci – perché non esiste qualcosa di migliore o peggiore. Sono diversi da noi, camminano su un sentiero diverso dal nostro.

A noi non resta che cercare qualcuno che sia sul nostro sentiero. Allora, la timidezza scompare, perché la relazione è facile, immediata, direi quasi come se ci fosse un’attrazione reciproca. Parlo per esperienza, perché la mia felicità coniugale di oggi (2022) è scaturita da un incontro nell’ambito dei miei interessi, nello specifico dalla musica e dalla radio. Senza alcun bisogno di mettermi in mostra, fare il macho, rompere le scatole a destra e a mancina come il maschio medio – la persona media – sembra sentirsi obbligato a fare.

L’azione è periferica

Di solito si pensa che la vita si identifichi con le azioni che compiamo. Personalmente, invece, sono sempre più convinto che prima dell’azione debba esserci il pensiero, e possibilmente un pensiero etico, cioè vitale.

Pensare prima di agire, nella mia esperienza, ha sempre portato ad un’azione di qualità superiore, dal punto di vista della vitalità, rispetto ad un’azione pura e semplice realizzata giusto perché “dovevo fare qualcosa”.

Non necessariamente, insomma, agire è la scelta migliore in un dato momento. L’azione, in generale, si configura come una periferia rispetto al centro che è rappresentato dal pensiero, e in particolare dal pensiero etico, vitale, costruttivo.

Pensiamo per esempio a una situazione in cui trovo una persona sgradevole o irritante. Può passarmi per la testa, che so io, di darle un pugno nel tentativo di farla smettere. Sarebbe senza dubbio un’azione, coerente con una cultura che ci spinge sempre ad agire. Ma sarebbe una buona idea? Quali sarebbero le conseguenze di un’azione del genere, basata su una reazione puramente emotiva?

E’ facile immaginarlo. Le relazioni con quella persona sicuramente non migliorerebbero, ed è quasi certo che quella persona non diventerà magicamente più simpatica. Ecco che allora – ne dubitavate? – entra in gioco la nostra respons-abilità. Decidiamo di allontanarci dalla persona, di ignorarla. Se ne siamo capaci, potremmo addirittura inviarle pensieri positivi, sforzandoci magari di notare qualche sua qualità. Sicuramente ne avrà qualcuna.

Credo sia facile cogliere la differenza. Non solo eviteremo probabilmente di scatenare una rissa, che porterebbe a complicare la situazione, ma altrettanto probabilmente rafforzeremo la nostra capacità di amare, migliorando sia la nostra vita che quella dell’altra persona, che non solo non si sentirà giudicata, ma addirittura amata incondizionatamente, forse per la prima volta in vita sua. Magari, per quella persona potrebbe anche iniziare un percorso di consapevolezza