Ricordare…

Quando vengono a mancare le cose, e soprattutto le persone, resta comunque una delle più belle caratteristiche della mente umana: la capacità di ricordare. Il ricordo, se vissuto nel modo giusto, ci dà forza, perché ci ricorda che determinate situazioni – e parlo di quelle piene di gioia – ci sono state e dunque sono (ancora) possibili, anche quando la situazione attuale ci inviterebbe alla disperazione.

Qualcuno potrà dire: ma io parlo di chi DEVE perdere tutto per colpa altrui.

Parliamo per esempio di una situazione molto particolare – una a caso: quella di essere profughi perché qualcuno ha invaso il tuo paese, e sei rimasto privo del tuo mondo, della tua casa, delle persone che ami. Ebbene, in questi frangenti a mio parere occorre di più ritrovare il più possibile la propria identità attraverso i ricordi, dando meno possibile spazio alla disperazione.

La guerra di qualsiasi tipo, tra le altre cose, tende a distruggere la nostra anima, a negarci come persone. Uno dei modi di vincere la guerra è stare al gioco il meno possibile. Preservare il proprio corpo, e la nostra identità. Semplice? Per nulla. Però mio nonno mi diceva sempre che costava la stessa fatica farsi schiacciare dalla guerra o provare a rimanere in piedi.

Dove inizia la pace

La pace inizia essenzialmente dentro di noi. Questo è un corollario del concetto di respons-abilità. Il fatto che a volte non ci sia pace nel mondo dipende dal fatto che un numero sufficiente di persone non ha coltivato abbastanza la pace dentro di sé.

La mia esperienza mi dice che spesso la pace, che possiamo anche considerare sinonimo di equilibrio, viene compromessa dall’ambizione. O, per essere più precisi, dall’ambizione intesa in modo sbagliato.

Partiamo da una constatazione. In quanto esseri umani, viviamo di obiettivi. Se non avessimo avuto obiettivi di alcun tipo, probabilmente la nostra specie non si sarebbe neppure evoluta. La riprova è la nostra sofferenza quando ci sentiamo presi nella cosiddetta ruota del criceto.

Questa situazione è particolarmente deprimente appunto perché sentiamo che non ci sono prospettive, obiettivi, traguardi. Anche se inizialmente avevamo scelto quel percorso a ragion veduta, abbiamo perso di vista il nostro perchè.

A quel punto, possiamo iniziare a pensare che la nostra sensazione di disagio sia colpa “di qualcuno là fuori” o più genericamente “del mondo”. Se così è, chiaramente l’unico modo di uscire dal disagio è “fargliela pagare” per averci “fatto soffrire”. E’ quello che chiameremo il meccanismo della rivalsa.

La rivalsa è alla base di ogni atto di teppismo, da quello minimo come distruggere una panchina in un parco al metter su un regime totalitario dalle tinte brutali. Cambia poco: il teppista, minimo o immenso che sia, trova nel suo teppismo l’unico modo per sentire di avere una qualche incidenza sulla realtà.

Quando poi due o più teppisti di un certo spessore si trovano a confronto, ecco che può nascere una situazione di scontro, tipo una guerra. Ma anche un teppista da solo può combinarne di veramente grosse, tipo aggredire qualcuno o un intero paese, sempre per sentire di aver fatto qualcosa per “fargliela pagare”.

Naturalmente, tutto questo non solo non porta a nulla, ma anzi tende ad aggravarsi. Il teppista di solito finisce per combinarne di sempre più grosse, fino ad autodistruggersi o venire distrutto. A meno che, naturalmente, a un certo punto per qualche motivo riceva un’illuminazione che gli consenta di capire quanto sia futile quello che sta facendo.

In quel momento, vedendosi da fuori, può decidere di cambiare percorso. Da vittima-carnefice può iniziare, se vuole, a trasformarsi in protagonista. Ovvero, ad abbracciare la respons-abilità per la propria vita, imparando a raggiungere i propri obiettivi senza prendersela con alcuno per i suoi problemi… pardon, per le sue sfide.