L’essenza

A volte occorre passare dal concreto all’astratto per cogliere l’essenza. Succede quando ti senti a disagio perché ti sei attaccato troppo a un obiettivo troppo preciso.

Può sembrare strana come affermazione: di solito infatti nel campo della motivazione gli obiettivi vengono considerati qualcosa di quasi sacro. E anch’io penso che mettersi degli obiettivi precisi, magari con una scadenza, sia un’ottimo modo per incentivarci a muoverci, a imparare magari qualcosa di nuovo.

Tuttavia, càpita a volte che l’obiettivo, pur nella sua natura positiva, diventi per noi un vero e proprio incubo. Succede quando magari le nostre risorse devono ancora essere integrate. Dobbiamo acquisire qualcosa, imparare qualcosa. E noi, invece di prendere coscienza di questo, ci irrigidiamo, diventiamo testardi. Vogliamo quell’obiettivo, lo vogliamo adesso. Facciamo le bizze un po’ come i bambini. Pestiamo i piedi: Vojo, vojo…

E’ un modo più che sicuro per farsi del male. Quantità industriali di energia vengono scialacquate in qualcosa di molto simile a sbattere la testa su un muro. Il muro non se ne preoccupa più di tanto, mentre voi vi fracassate il cranio.

Questi sono i momenti in cui occorre tornare all’essenza, a quello che qualcuno chiama i valori. Perché abbiamo scelto di perseguire quell’obiettivo? Che cosa rappresenta per noi? In base a quale valore l’abbiamo scelto? E’ possibile che ci siano altre strade per raggiungere lo stesso risultato? Come possiamo suddividere quell’obiettivo in modo da trovare un’azione che possiamo fare adesso con un po’ di impegno?

Un passo avanti con la salute

Anche nel campo della salute vale il concetto che abbiamo sviluppato finora, vale a dire quello della respons-abilità. Non c’è dubbio che la scienza sia molto progredita, che abbia raggiunto delle vette assai notevoli. E’ anche vero però che molta strada rimane ancora da percorrere. Nonostante gli encomiabili sforzi degli scienziati, molte cose rimangono oscure, a partire, appunto, dalla materia oscura. Non c’è quindi da stupirsi se anche quando si parla di salute parecchio sia stato fatto, ma assai di più rimanga da fare.

Direte voi, ma allora non devo più fidarmi del mio medico curante? Certo che sì. Soltanto che a mio parere bisogna smetterla di vederlo come un depositario della Verità, e piuttosto come un consulente. Una persona che sicuramente ne sa più di voi nel campo della salute, e che ha il compito di darvi informazioni comprensibili su come state e, nel caso, su come potete stare meglio. Niente di più, niente di meno.

Ricordiamoci quello che dicevamo all’inizio: noi siamo respons-abili. Dobbiamo ascoltare tutti, senza per questo metterci nelle mani di nessuno. Quelle che escono dalla bocca del medico sono opinioni. Qualificatissime, senza dubbio. Da prendere nella massima considerazione. Ma cionondimeno rimangono delle opinioni, e non dei dogmi, degli ordini superiori a cui obbedire senza discutere.

A maggior ragione, evitiamo di confondere delle diagnosi con delle sentenze. Quando vi viene detto che avete la coglionite aggravata, per esempio, e che vi restano, tipo, sei mesi di vita, si tratta semplicemente di una conclusione tratta dai vostri sintomi, dagli esami clinici e da statistiche, non di un diktat che determina la durata della vostra vita residua.

Il primo motivo per cui vi dico questo è che ognuno di noi è un caso a sé stante. Le statistiche, come diceva il poeta, sono quella cosa per cui se io mangio un pollo e voi ne mangiate due, abbiamo mangiato un pollo per uno. Fanno una media, magari descrivono anche una tendenza, ma nel modo più assoluto non sono in grado di prevedere il futuro, tanto più per un singolo individuo.

Quindi, il mio invito è quello di prendere prescrizioni e diagnosi con beneficio di inventario, senza spaventarsi. Ho visto troppa gente andare nel panico dopo una diagnosi di, apro virgolette, “malattia terminale”, chiudo virgolette.

Secondo me, si tratta di una diagnosi imprecisa. Bisognerebbe forse piuttosto dire “malattia statisticamente terminale”. Non possiamo sapere come risponderà il nostro corpo, sia da solo che ai farmaci. Non possiamo sapere quale soluzione potrebbe portarci domani mattina la tecnologia medica, o la semplice forza vitale di ciascuno di noi.

Quindi, come comportarsi? Semplice: dobbiamo essere respons-abili. A mio parere, uno dei passi fondamentali da fare è conoscere come funziona il nostro corpo. Un bravo medico non prescrive solo medicinali, ma da anche delucidazioni su come si è creato il problema che ha portato alla prescrizione del farmaco, e su come eventualmente possiamo comportarci perché, magari, un giorno il farmaco non sia più necessario.

Già: perché mi fanno morire (è il caso di dirlo) i medici che affermano: questo farmaco lo dovrai prendere a vita. E’ una delle barzellette più divertenti che abbia mai sentito. Hai la sfera di cristallo, o leggi i fondi del caffè, che sai per certo che per tutta la vita dovrò assumere quel farmaco? E se domani mattina qualcuno inventa una cura definitiva? O se invece viene scoperto un metodo per guarire senza farmaci?

Lasciamo poi stare il fatto che i farmaci, eventualmente, dovrebbero curare la causa della malattia e non i sintomi. O per meglio dire, bene alleviare i sintomi, ma poi occorre andare alla radice della malattia, alla sua causa. E prima ancora, occorre sviluppare dei metodi per conservare la salute.

Anche qui, bisogna sapere come funziona il nostro corpo. Costa fatica? Senza dubbio. E’ una faccenda che rientra nella respons-abilità. Bisogna informarsi. Rubare un po’ di tempo al divano, e interessarsi all’approfondimento di come siamo fatti. Ascoltare il nostro corpo. Rendersi conto del perché ci manda certi segnali. Si tratta di un’abitudine, e come tutte le abitudini si acquisisce.

C’è la nebbia? Metti la prima e avanti piano

Nonostante tutta la motivazione, la fede e la buona volontà di questo mondo, càpitano ugualmente dei periodi in cui ci sentiamo smarriti, e abbiamo la sensazione di non andare da nessuna parte. Una situazione che possiamo paragonare al camminare nella nebbia. Cosa possiamo fare in una situazione del genere…

Non sai come procedere? Procedi.

Pensiamo a come ci si comporta in auto quando incontriamo un banco di nebbia. L’autostrada (e la nostra destinazione) sono ancora là fuori, solo che la nebbia ci impedisce di vederle. Possiamo certamente fermarci alla prima stazione di servizio, e poi aspettare che la nebbia si alzi. Oppure semplicemente andare avanti, Ma in ogni caso, eccoci qui: bisogna, per un tratto almeno, avanzare nella nebbia.

E’ evidente che nella nebbia non si può andare a 110 come quando la nebbia non c’è. Dobbiamo adeguare la nostra velocità a quello che riusciamo a vedere (sempre che ci interessi rimanere in sicurezza: c’è chi va lo stesso a 110 nella nebbia, ma questo è un altro discorso). Quindi procediamo a 40/50, aguzzando la vista.

Lo stesso succede nei nostri momenti di smarrimento. Cerchiamo di ricordarci che i nostri obiettivi sono sempre lì, non sono scomparsi. E’ solo che in questo momento non li percepiamo perché per qualche motivo nella nostra mente è calata una sorta di nebbia. In questo caso, procediamo mettendo, classicamente, un piede davanti all’altro. Raccogliamo nuovi dati, e rimaniamo fiduciosi nelle nostre risorse. Aspettiamo che la nebbia, come sempre fa, prima o poi si alzi.

Come una nuvola che passa e va

Molto del nostro disagio deriva dal fatto di pensare che una data situazione “negativa” (cioè, che non ci piace) sia destinata a durare per sempre. Peraltro, sappiamo benissimo come non ci sia nulla che duri “per sempre”. Tutto scorre, diceva il filosofo. Passano le cose “belle” (cioè, che mi piacciono) ma anche le cose “brutte” (cioè, che non mi piacciono). Il che ci da un vantaggio competitivo non da poco.

Infatti, pensando alla realtà come un continuo scorrere di ogni cosa, possiamo concepire gli eventi “negativi” come delle nuvole. Le nuvole appaiono nel cielo, magari diventano anche dense e nere, cariche di pioggia, ma alla fine, con il tempo, sono destinate a dissolversi. Allo stesso modo, anche le situazioni e le emozioni che viviamo, per quanto complicate e pervasive, sono destinate prima o poi a terminare.

Quindi, ecco una metafora che ritengo utile. Quando ci sentiamo un po’ “nuvolosi”, visualizziamo la nostra mente come un cielo ingombro. Adesso, immaginiamo che un gradevole venticello arrivi a spostare i minacciosi cirronembi, dissolvendoli. Rimangono solamente delle piccole, graziose nuvolette nel cielo azzurro.

Non so a voi, ma per quanto mi riguarda questa metafora libera un sacco di energie.