La Revisione della Routine

C’è chi quando vuole cambiare annuncia che esce a comprare le sigarette e non torna più. Non sempre è una buona idea. Anzi, quasi mai. Dovunque andiamo, porteremo con noi quello che siamo, e tenderemo a creare una situazione per la quale un bel giorno annunceremo di nuovo che usciamo a comprare le sigarette.

Può essere utile una procedura meno drastica. La mia personalissima esperienza mi dice che è possibile essere più graduali, passando dall’identificarsi con una situazione al comprendere che la situazione che stiamo vivendo è soltanto una delle situazioni possibili. E’ un concetto che somiglia un po’ a quello di Reality Transurfing coniato da Vadim Zeland.

In pratica, si tratta di distaccarsi un attimo da quello che sta succedendo. Revisionare la nostra routine mentre sta girando. Sì perché quello che stiamo vivendo alla fine non è altro che il risultato dei pensieri e delle azioni che abbiamo prodotto finora. Se vogliamo cambiare, è evidente che dobbiamo cambiare i nostri pensieri e di conseguenza le nostre azioni, e ancora di conseguenza i nostri risultati. Occorre allargare la nostra mente, imparare qualcosa di nuovo.

Non si tratta, chiaramente, di premere un interruttore e via, come siamo abituati a fare nella nostra civiltà fast-food. Torniamo sempre al concetto di respons-abilità. Distaccarsi dalla situazione è un’abitudine, e come tutte le abitudini si acquisisce nel tempo, e applicando la consapevolezza. Esattamente come quando si vuole sviluppare la “tartaruga”. In quel caso, occorre decidere di andare in palestra, e andarci regolarmente per qualche mesetto, e in alcuni casi anche per qualche annetto.

Oppure, vogliamo parlare della dieta? Voglio qui menzionare Anna Menasci, una bravissima nutrizionista che a suo tempo mi aiutò a perdere una decina di chili in tempi ragionevoli. Mi disse, papale papale, che non serve “fare una dieta”, ma applicare la nostra consapevolezza per cambiare regime alimentare. Un consiglio che adopero ancora oggi, a quasi vent’anni di distanza.

Allo stesso modo, rivedere la nostra routine deve diventare una buona abitudine. E’ utile capire come non buttare il bambino con l’acqua sporca. Capire cioè quali aspetti della nostra routine è bene cambiare e quali invece, nonostante siano anch’essi pezzi di routine, rappresentino un aspetto vitale e costruttivo.

Così facendo, senza traumi eccessivi, la nostra vita inizierà a cambiare in meglio, perché diventeremo più respons-abili, cioè più abili a rispondere. Ci sentiremo più capaci, e questo ci porterà a vivere con sempre maggiore soddisfazione ogni aspetto della nostra vita.

Scuola: chi vuole studiare studia. E’ vero ragaSSi?

Ogni volta che la scuola sta per riprendere, si riaccende il dibattito. Come dovrebbe essere la scuola, soprattutto quella pubblica? Quali metodi di insegnamento usare? Come organizzare le classi? E la pianta organica? Eeeeh, la pianta organica, l’equazione a dieci incognite che ogni anno si ripresenta, puntuale come la morte e le tasse.

Quest’anno, poi, la questione si presenta anche più complessa, con le questioni sanitarie che sappiamo. Distanziamento sì, distanziamento no. Mascherine sì, mascherine no. Orari trasversali, diagonali, di sghimbescio… E le famiglie alle prese a loro volta con l’equazione a venti incognite: mandare i figli a scuola, non mandarceli, e insomma come gestire questi ragazzi in una situazione che nessuno sa come possa evolvere.

La mia personalissima opinione è che in tutto questo si vada a perdere un po’ il senso primario della scuola, che in buona sostanza dovrebbe essere: studiare. O, per essere più precisi ancora: imparare. Ancora meglio: imparare ad imparare.

Secondo me gli insegnanti di ogni livello, dall’asilo al master, dovrebbero sì spiegare i programmi (li pagano per quello) ma anche dare loro stessi con il loro comportamento un esempio di atteggiamento verso lo studio, far capire che non è poi quella “cosa bbrutta e ppesante”, che è bello imparare, conoscere, e soprattutto ragionare, su qualsiasi cosa. E serve non tanto per imparare un paio di date, ma per abituarci a capire e strutturare i problemi, trasformandoli in sfide e rendendoci capaci di affrontarle, assaporando il piacere di progredire.

Ho avuto la fortuna di trovare insegnanti, vorrei dire persone così, soprattutto al liceo, ma anche all’Università. Grande interesse non solo verso la loro materia, ma entusiasmo per la conoscenza in generale. Ed eccomi qui, a cinquantadue anni suonati, ancora desideroso di imparare e capire. Se si riesce a fare questo, tutte le discussioni infinite su “quale scuola” diventano semplicemente inutili.

In particolare, mi torna in mente il prof di spagnolo al liceo. L’ottimo docente, originario della Romagna, era solito dire: chi vuole studiare studia, èvero ragaSSi?

Trovo che in materia di studio e istruzione mai frase fu più pregnante. Mi ha sostenuto lungo tutto il liceo, l’università, il corso per agente immobiliare e infine la preparazione all’esame di stato per diventare giornalista professionista. Si tratta di un concetto che supera tutte le oggettive difficoltà del nostro sistema scolastico. Per esempio, il nostro liceo era in un ex-albergo abbastanza fatiscente. Ma questo non ha impedito alla nostra classe di raggiungere dei traguardi interessanti. A dimostrazione che chi solleva oltre le bagatelle quotidiane, da qualche parte arriva.

Arte vs Business

Mi è tornata in mente una bellissima persona, Renato Corrieri, a suo tempo titolare di una galleria d’arte a Livorno a cavallo, se la memoria non mi inganna, tra gli anni Ottanta e i Duemila. Ho avuto con lui diverse gustose conversazioni, e in questa occasione mi piace ricordarne una in particolare.

Il buon Corrieri, va detto, era un piccolo Mecenate, che dava spazio ad artisti giovani, sia di età che di spirito, che sperimentavano come se non ci fosse un domani. Ne venivano fuori anche delle cosine davvero stimolanti. Soltanto, l’anziano gallerista si lamentava del fatto che “il pubblico” (cioè, in definitiva, “il mercato”) voleva opere di altro tipo.

Colsi una simpatica contraddizione in tutto questo. Pensai: ma alla fin fine, che cosa vogliamo? Fare arte o fare business?

Per carità, non che le due cose siano sempre e necessariamente in contraddizione tra di loro. Ci sono casi eclatanti che ce lo confermano. Solo che si tratta di due approcci completamente diversi. Da quel che ne capisco io, fare “arte” vuol dire sperimentare, ricercare. Attività che non prendono in considerazione i gusti di un eventuale “pubblico”, e tantomeno di un’altrettanto eventuale “mercato”.

Il business, invece, vive proprio di “pubblico” e di “mercato”. Ovvero, non puoi (o per essere più precisi non è una buona idea) fare quello che ti pare, o anche semplicemente seguire la tua ispirazione. Devi fare degli studi su quello che vuole il tuo cliente finale… e darglielo come vuole lui, non come vuoi tu.

Le due cose non si inrociano mai? Certo che sì. Ci sono casi di artisti veri che, per diversi motivi, hanno incontrato i gusti di “pubblico” e “mercato”. Penso a Picasso e Dalì, che divennero l’equivalente di quelle che chiamiamo “rockstar”. C’era magari di mezzo un po’ di marketing artigianale anche da parte degli stessi artisti, ma dal momento che anche il marketing è arte, possiamo dire che questi geni hanno usato al meglio le loro capacità comunicative.

C’è poi il business, puro e semplice. Quello dove non c’è “ricerca” nel senso artistica del termine. Il “prodotto”, l’obiettivo non è la sperimentazione, ma il profitto. Un punto di vista assolutamente legittimo, ma che almeno in generale non ha niente a che vedere con l’arte.

Quale dei due approcci deve scegliere un artista?

Prima di tutto, abbiamo visto che esiste anche la possibilità di incrociarli. Cioè: l’artista può fare il suo gioco, e poi trovare il modo di attrarre l’attenzione del pubblico, creando interesse, e possibilmente anche valore, attorno alle loro opere. E probabilmente è questa la situazione più interessante.

Oppure, come a volte succede nel cinema, si producono alcuni film cosiddetti “di cassetta”, e con una parte del ricavato si producono pellicole di spessore, ma che probabilmente non renderanno altrettanto. Così, anche l’artista può produrre opere calibrate sul gusto del pubblico per fare “cassetta”, e poi dedicarsi a quello che veramente vuol fare. Spesso succede anche con i musicisti, che producono canzonette nella prima parte della loro carriera, per poi passare alle sperimentazioni che li interessano veramente.

Possiamo quindi scegliere una delle infinite sfumature tra pura arte e puro business. Come sempre, anche qui scende in campo la respons-abilità dell’artista, unico vero gestore della propria vita e della propria arte.

Una spruzzata di gioia

E’ abbastanza controproducente vivere con una vibrazione negativa, ad esempio essere di “cattivo umore“. In questo modo, infatti, continuiamo ad attirare situazioni che ci confermano l’idea che il mondo è un postaccio, e rimaniamo presi nella spirale negativa, nel cane o nel serpente che si morde la coda.

In questo senso, ci possono essere utili tutte le tecniche che ci aiutano ad alzare il livello della nostra vibrazione, del nostro umore, se vogliamo chiamarlo così. In particolare, trovo molto utili le metafore. Oggi voglio parlarvi della “spruzzatina di gioia”.

Alla parola “spruzzatina”, almeno per me, corrisponde abbastanza immediatamente l’immagine della bomboletta spray. Probabilmente, per una persona vissuta nell’Ottocento, sarebbe stata più attinente una pompetta, ma tant’è. Nel tempo, anche le metafore si trasformano.

Dicevamo dunque della metafora della bomboletta spray. Il meccanismo è abbastanza semplice. Quando sentiamo che il senso di sfiga si impossessa di noi, immaginiamo di prendere una bomboletta spray etichettata “GIOIA” e….. pssssss! diamo una spruzzatina.

Naturalmente, non è che tutti i nostri problemi si risolvano come per incanto. Il mondo materiale è denso, e ci mette un tantino a cambiare. Però sarete d’accordo con me che utilizzando questa semplice immagine, per quanto strano possa sembrare, cambiano, e non di poco, le nostre prospettive, le premesse di quello che accadrà di lì in avanti.

Perché di questo alla fine si tratta. Se manteniamo il nostro cattivo umore, continueremo a notare aspetti negativi della realtà, con il rischio di attivare o proseguire una spirale negativa. Se invece sviluppiamo la respons-abilità, cambiando il nostro umore, il nostro livello di vibrazione, allarghiamo la nostra percezione, possiamo vedere ulteriori soluzioni ai nostri problemi, alle nostre sfide, e ci mettiamo in grado di ottenere risultati molto, molto interessanti.

La fine dell’incubo

A volta capita di vivere in un incubo. O di essere convinti di viverci, che alla fine è lo stesso. Se vogliamo dare una svolta alla nostra vita, il primo passo è svegliarsi. Se necessario, scrollarsi di brutto.

C’è un episodio di Star Trek – The Next Generation intitolato Il Gioco. Si tratta, secondo me, di uno tra i più claustrofobici e inquietanti, ma anche più stimolanti, della serie. L’equipaggio dell’Enterprise viene soggiogato da una popolazione aliena per mezzo di un congegno da applicare agli occhi che sembra un gioco ma in realtà agisce sul ragionamento profondo di chi lo usa, riprogrammando la sua mente a favore degli alieni e spingendolo a far usare il congegno anche a chi lo circonda.

Nella scena madre dell’episodio, Wesley Crusher è ormai l’unico ancora in possesso delle proprie facoltà mentali.Anche lui sta per soccombere quando interviene il comandante Data. L’androide, disattivato dagli altri membri dell’equipaggio ma riattivato a suo tempo da Crusher, risveglia tutti grazie a un semplice ma efficace mezzo: una luce stroboscopica.

Ritengo che questa sia in definitiva (anche) una metafora di quello che “il mondo” fa a noi tutti giorno dopo giorno. In questo caso “il gioco” non è altro che quello che per altri versi si può definire “tran tran” . Le piccole grandi cose che “dobbiamo” (o “pensiamo di dover”) fare: andare al lavoro (o cercarlo), pagare le bollette, preoccuparsi per il futuro.

Qualcuno potrà dire: David, ma mi stai suggerendo di fregarmene bellamente di tutto ciò? “La vita” è questa!

A parte il fatto che no, “la vita” non è questa, o meglio non solo questa, è anche vero che abbiamo delle responsabilità verso noi stessi, ed eventualmente verso la nostra famiglia. “Il gioco” è coinvolgente, esigente, e spesso “arriviamo a sera che siamo degli stracci”. Quindi, in qualche modo siamo stati “condizionati dagli alieni”. E dunque? Può essere utile, come spesso accade, un mutamento graduale.

Tornando alla trama del telefilm, occorre che il buon Data arrivi in nostro soccorso con la sua luce stroboscopica, svegliandoci dal condizionamento. Il bello è che possiamo essere noi stessi ad incarnare il simpatico androide. Anche qui, come sempre, si tratta di creare un’abitudine nuova, creandoci spiragli sempre più ampi per uscire dall’incubo.

Quando il lavoro non ci piace

In linea di massima, non dovremmo fare un lavoro che non ci piace. So che come affermazione è un po’ forte, ma se ci fermiamo un attimo a riflettere, converrete con me che è vera. Un lavoro che non ci piace ci condanna a una vita di infelicità.

Semplicemente, la maggior parte delle nostre energie se ne va nel sopportare il lavoro quando ci siamo, e nel pensare a quanto è pesante il lavoro quando non ci siamo. Il che è molto ma molto peggio che passare un periodo di relativa ristrettezza economica mentre ci impegniamo affinché la nostra passione produca reddito.

Esiste naturalmente un’altra possibilità, meno drastica. Farci piacere il lavoro che stiamo facendo. Ovvero, concentrarsi sugli aspetti più interessanti e diventarne esperti. Insomma, prendersi la “respons-abilità” della nostra vita.

Questo può essere fatto in qualsiasi lavoro, per quanto lo consideriamo “disgraziato” e “umile”. Concentrarsi sugli aspetti interessanti del proprio lavoro, approfondirli e diventare sempre più abili migliora la qualità della nostra vibrazione. Siamo più energici in tutti gli ambiti della nostra esistenza.E questo ci aiuta ad avere chiarezza di intenti, e di conseguenza ad essere felici.

A volte capita che anche il lavoro che in genere ci piace, non ci piaccia. Succede in genere quando arriviamo a un pelo da un traguardo importante, tipo una promozione, e per qualche motivo lo manchiamo. Mediamente, in queste situazioni viene spontaneo covare del risentimento. La mia esperienza però mi dice che, ahimè, non è la soluzione più efficace, perché ci priva di energia, mentre per raggiungere l’obiettivo ci occorre tutta l’energia di cui possiamo disporre.

Posso dirti come reagisco io in simili situazioni.. Continuo a lavorare con il massimo dell’entusiasmo possibile, concentrandomi sul fare il lavoro meglio che posso. e staccandomi quanto posso dal risentimento che prova il mio ego, il mio bambino imbronciato perché gli hanno rubato le caramelle. Statisticamente, questo mi è sempre servito per sbloccare la situazione.

La premessa nel mio caso è che il mio lavoro mi piace a prescindere, e vedo promozioni et similia solo come un’eventuale conseguenza piuttosto che come una meta in sé e per sé.

In un punto dello spaziotempo…

Sto trovando molto utile una strategia che sto mettendo in atto da un po’ di tempo. Sono sempre più convinto che vivere bene consista nel mettere in ordine le cose da fare, mettendo in equilibrio quelle che dobbiamo fare con quelle che vogliamo fare.

Il che non è semplice, come ben sappiamo. Nella nostra società siamo costantemente bombardati dagli stimoli più svariati. Il che fa si che più spesso che no perdiamo di vista cosa vogliamo veramente.

Ebbene, la tecnica che sto usando in questo periodo – e che mi sta dando discrete soddisfazioni – può essere usata quando ci viene in mente qualcosa di importante ma non urgente, a cui in quel momento non possiamo prestare la dovuta attenzione.

Si tratta di una tecnica un po’ paradossale, nel senso che di solito la cultura dominante ci impone di fare tutto subito. Magari le prime volte che la adopereremo potrà accadere di sentirsi un po’ a disagio. Questa sensazione però verrà più che compensata dall’energia che andremo a recuperare.

Qual è dunque questa tecnica? Dato un qualsiasi obiettivo che non è possibile raggiungere in quel preciso momento, o al quale per i motivi più svariati non posso prestare attenzione, uso la mia immaginazione per figurarmi che, in un dato punto dello spazio-tempo ancora da determinare, verrà sicuramente realizzato.

Naturalmente, si tratta di un’opinione come un’altra, di un giudizio esattamente uguale agli altri che siamo abituati a dare nel corso della nostra vita. La differenza sta nel fatto che un giudizio, un’opinione di questo tipo attiva risorse molto più potenzianti. Aumentano infatti di parecchio le possibilità che dapprima troviamo i pezzi del puzzle, e poi che i pezzi del puzzle si incastrino a formare un’immagine chiara e definita della nostra meta.